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Il lato oscuro della moda

  20 Ottobre 2021

La moda usa e getta, un sistema insostenibile. Il costo: emissioni di gas serra, sostanze chimiche inquinanti, spreco d’acqua, diritti umani calpestati 

Per “Fast Fashion” si intende il modello di business delle grandi catene di distribuzione che negli ultimi vent’anni si è imposto a livello globale, con una produzione sovrabbondante e sempre più veloce di merce venduta a basso costo. Ma il vantaggio economico e la democratizzazione della moda hanno un prezzo etico ed ambientale non contemplato dal cartellino.  

Basti pensare che il settore tessile produce circa il 10% delle emissioni globali di CO2, ed è stato previsto che tali emissioni aumenteranno del 60% nei prossimi dieci anni. Con questi numeri, il settore moda si trova al secondo posto dopo l’industria petrolifera, come industria più inquinante al mondo. Uno scotto che non vale la candela, considerando che al netto di una produzione più veloce e del continuo ricambio di merce all’interno dei negozi (più collezioni, maggiore offerta e garanzia della novità), corrispondono un impatto ambientale devastante, vestiti di qualità inferiore rispetto al passato, ed un maggior sfruttamento dei lavoratori. Il cambio di stagione, insomma, rischia di avere un peso ambientale e sociale del quale il consumatore non è consapevole.  

Oltre alle emissioni di gas serra, infatti, la produzione massiva di capi d’abbigliamento comporta una serie di conseguenze quali lo sversamento nei nostri mari di tonnellate di microplastiche, microfibre e agenti chimici dannosi che costituiscono il 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali. Secondo uno studio dell’Università della California per ciascun lavaggio di una giacca sintetica vengono rilasciati 1,174 milligrammi microfibre e che il 40% di queste finisce nelle acque. 

Sebbene le conseguenze di queste strategie di produzione siano oggetto di recente osservazione, il termine Fast Fashion è in uso dal 1989, coniato dal New York Times in occasione dell’apertura del primo store newyorkese di Zara. Proprio tra gli anni Ottanta e il Duemila il boom di grandi compagnie, infatti, ha dato il via alla svolta produttiva e culturale che ha convinto il consumatore a percepire i capi di vestiario in un’ottica al limite dell’usa e getta. 

Il 23 Aprile 2013, con il crollo del Rana Plaza di Savar in Bangladesh, il vaso di Pandora viene in fine scoperchiato: considerato il punto di rottura che ha innescato le riflessioni attuali sulla fast fashion, il crollo della struttura, che ospitava laboratori tessili dei più noti marchi europei, ha causato oltre 1.100 morti tra i lavoratori e oltre 2.200 feriti. 

Una dimensione chiaramente incompatibile con i diritti umani, con l’ideale di economia sostenibile e con uno sviluppo industriale etico.  

Proprio per questo, associazioni internazionali come Fashion Revolution e i sostenitori del movimento Slow Fashion, propongono campagne per rimettere in circolo i tessuti usati e difendere i diritti sociali e salariali dei lavoratori. Con l’obiettivo di difendere la prospettiva di un futuro green nel settore retail e nell’industria tessile, nascono campagne a sostegno dell’ambiente, portate avanti con successo anche da associazioni come Abiti Puliti (coalizione internazionale di CleanClothes), Ethical Trade, Redress, Remake, e UN Fashion Alliance, iniziativa, quest’ultima, lanciata dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni nate per contribuire agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile siglati nell’Agenda 2030. È ormai sotto la luce del sole che i ritmi produttivi estenuanti, la dislocazione degli impianti tessili in paesi poveri e lo sfruttamento di manodopera sottopagata, siano il prezzo amaro per una moda sempre più accessibile. In Italia il Settore Tessile è al terzo posto per rilievo economico in campo manifatturiero, con quasi mezzo milione di addetti e più di 50.000 aziende. Eppure, anche il Made in Italy rischia di essere sommerso dal fenomeno della produzione massiva, con le piccole sartorie costrette a chiudere e le grandi aziende ad adeguarsi a un calo qualitativo in favore della quantità. L’alternativa alla moda mainstream è un consumo consapevole e ponderato, basato sulla valorizzazione dell’usato, del vintage e del riciclo dei tessuti. Usando una citazione di Livia Firth, fondatrice e direttrice creativa di Eco-Age, «La Fast fashion è come il cibo spazzatura dopo il rush di zuccheri, lascia soltanto un sapore spiacevole in bocca». 

 

di Silvia Barbato 

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