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Bagnoli, passato e futuro

  13 Ottobre 2021

Dall’Italsider a Balneolis per recuperare un pezzo di territorio, ma anche per scrivere una storia nuova, non solo per Napoli  

Parco naturale, bosco produttivo, parco urbano, e soprattutto un fronte mare liberato. Il progetto “Balneolis”, vincitore del concorso internazionale per la riqualificazione dell’area ex Italsider di Bagnoli, promette di ridisegnare un pezzo di territorio e di restituire alla città un pezzo di quel mare che – per dirla col titolo di un libro famoso – “non bagna Napoli”. Poiché di quell’amara metafora di Anna Maria Ortese, delle complicazioni e delle “false coscienze” di questa città-mondo, la storia di Bagnoli è stata forse, nel corso del Novecento, un esempio vivo e concreto.  

Un pezzo di costa incantevole, tra Napoli e Pozzuoli, sacrificato all’industria, per far entrare l’Italia nella moderna siderurgia mondiale. All’inizio fu più o meno questo. Lo stabilimento “Ilva” inaugurato nel 1910 nacque quasi “per decreto”, grazie alla legge «per il risorgimento economico di Napoli» voluta da Francesco Saverio Nitti nel 1904. 

La produzione dell’acciaio seguì ovviamente gli alti e bassi del mercato: le due guerre, la ricostruzione, il boom e tutto il resto. «Era una fumifera città rossa e nera (la chiamavamo Ferropoli) – scrisse Ermanno Rea nel romanzo “La dismissione” – sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi fino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi». 

Bagnoli diede lavoro a migliaia di persone. Era “la fabbrica”, anzi “il cantiere”. E col passare del tempo divenne orgoglio, dignità, speranza: coscienza di una classe operaia che poteva scegliere di lavorare e guadagnarsi la vita, invece di barcamenarsi in quell’ambiguo arrangiarsi che a Napoli può voler dire molte cose, anche spiacevoli. 

Nel 1961 la vecchia “Ilva” diviene “Italsider”: sono anni di progetti ambiziosi, forse esagerati. La fabbrica si allarga fin sul mare con la “colmata”. Ma poi in meno di un decennio, con la fine del “boom” economico – in una Napoli e in un’Italia che inseguono il mondo che cambia – quello della grande industria di Stato è ormai un destino segnato. 

Col Piano Regolatore del 1970 comincia il tortuoso e controverso percorso che porterà alla fine di “Ferropoli”: prima la decisione di destinare il 30% della superficie a verde e impianti turistici, accanto ad attività industriali “non nocive” (che imponeva di fatto una delocalizzazione dell’Acciaieria); poi il passo indietro la Variante del 1975, che autorizza l’ammodernamento e addirittura un ampliamento degli impianti.  

È un vero e proprio corto-circuito. Nel 1978 l’IRI stabilisce che Bagnoli è «inadatta all’esercizio di un moderno impianto siderurgico» e ne prevede la progressiva chiusura; ma nel giro di un anno l’Italsider avvia un imponente piano di ristrutturazione, che costa allo Stato oltre mille miliardi di lire. Quelli che dovrebbero essere gli anni del rilancio, però, si trasformano in un calvario: Napoli assiste impotente allo smantellamento della grande acciaieria, inspiegabilmente chiusa, come ha scritto Ermanno Rea, «per influenza degli interessi economici, malavitosi e politici e per debolezza dei sindacati, e non solo per crisi economica». Bagnoli da orgoglio diviene rabbia, e poi delusione e sgomento quando nell’ottobre del 1990 l’Italsider vede l’ultima colata. «La storia dell’Ilva è la dimostrazione che le fabbriche a Napoli non hanno indotto nessuna modernizzazione», ha detto amaramente Rea: «Dicevamo: l’Ilva entrerà nel vicolo e lo bonificherà. Alla lunga è accaduto l’inverso: il vicolo è entrato nell’Ilva e l’ha inquinata».  

Non si tratta solo della chiusura di una fabbrica. «Bagnoli – scrive sempre Rea ne “La dismissione” – si era così tanto identificata con la fabbrica che alla sua scomparsa divenne praticamente un nulla, un non-luogo, un’assenza. Soprattutto, un’assenza di futuro». 

Cos’è accaduto, poi, nei trent’anni successivi, non è ancora facile da definire (e forse da digerire). Ha provato a ricostruirlo l’ingegnere Giovanni Capasso – ultimo assunto all’Italsider, e poi curatore dell’archivio storico – nel libro “Bagnoli, l’ultimo casco giallo”. Cantieri, bonifiche, polemiche, occasioni perdute. Ma anche arte e letteratura, musica, cinema e ricerca. Grandi progetti – in parte realizzati, bruciando centinaia di milioni di euro – naufragati fino al fallimento della Società di trasformazione urbana “Bagnolifutura”.  

Dopo la grande storia industriale del Novecento, a Bagnoli hanno preso forma tutte le incertezze e le contraddizioni di un “tempo nuovo” che forse non siamo ancora riusciti a comprendere, se è vero che all’Ilva di Taranto sembra ripetersi un film già visto. Un motivo in più per sperare nei nuovi progetti: per recuperare un pezzo di territorio, ma anche per scrivere una storia nuova, non solo per Napoli.  

 

di Giuseppe Pesce

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