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Look-down, guarda in basso

  14 Febbraio 2021

Napoli si emoziona per l’opera di Jago a Piazza Plebiscito: un bimbo tutto bianco rannicchiato e riverso su un fianco con una catena che lo inchioda al suolo

Ogni scultura ha una propria storia e coinvolge le persone che la vedono e che ne fanno parte per far entrare le persone dentro un processo creativo», ha affermato Jago (Jacopo Cardillo, Frosinone 1987). Una riflessione per dimostrare che l’immagine, oltre ad essere un fatto estetico è funzione comunicativa, il cui significato risiede nei modi della nostra percezione.

Per descrivere questa strategia, basta attraversare in questi giorni Piazza Plebiscito a Napoli e, volgendo lo sguardo in basso (Look-down), imbattersi in Homeless, nome dato a una nuova sua straordinaria installazione marmorea, che ha scelto di collocare sui sanpietrini della piazza una notte di inizio novembre. Il primo impatto è immediatamente flagrante, ci cattura e stupisce. L’immagine – un bambino nudo e rannicchiato, ancorato al suolo da una catena – è una costruzione che offrendo una polifonia di suggestioni è soprattutto un gesto testimoniale.

L’opera disegna un palinsesto di emozioni in cui input e indicazioni si incastonano a stretto nesso. Assecondando le screpolature della storia, Jago fa emergere ciò che è sotto l’epidermide, aprendo ferite, cicatrici, segni. Distante da ogni concettualismo, si muove dentro la fantasmagoria della vita e la fenomenologia dell’esistente, tra seduzioni e sedizioni, inciampi e cadute, rimozioni e certezze, saldando lo spazio dell’immagine con le attitudini che abitano il nostro inconscio. Scultore innovativo e virtuoso – a Napoli già famoso per Figlio velato, citazione del capolavoro di Giuseppe Sammartino, custodito nella Cappella San Severo – con Look-down stavolta riesce a interpretare l’odierno sgomento della metropoli contemporanea, il cui esito è un’espressività quasi naturale.

Raccontarla implica sempre un processo, una trasformazione, una provvisorietà: la scultura a piazza Plebiscito è come una pagina di un diario dove le parole sono state sostituite da un’icona in cui arte e vita convergono. Jago rappresenta il caos del reale e lo trattiene come un flusso dentro cui riflettere. Ed è interessante e particolarmente indicativo notare che dinanzi a questa scultura tutti si fermano, si accostano, si confrontano rivolgendosi a un amico. C’è chi vi si siede accanto e ne traccia uno schizzo, c’è chi scatta una foto, chi si fa un selfie. E c’è anche chi si attarda e medita: si tratta di un piccolo gruppo di studenti di due licei napoletani con cui inizio a conversare, annotando qualche brano delle loro sensazioni.

Mi colpisce subito Carmela che sta scrivendo mille concetti che poi sussurra a mezzo tono: «Ascolto il silenzio che mi culla in questo giorno fermo… come lui, sarò bambina sempre anch’io, anche se crescerò…». E poi via via quelle degli altri: «Homless inquadra questo pezzo di territorio e lo reinterpreta, per afferrarne il senso nascosto» (Umberto); «Questo bambino mi fa pensare che siamo tutti prigionieri senza tempo, la paura è negli occhi di tutti noi» (Francesco e Lorena); «Mi sento avvolta da sfumature opache, quelle di questo periodo che stiamo vivendo e con cui dobbiamo fare i conti» (Desirée); «È un richiamo a riscoprire, rivelare, proteggere la nostra terra» (Lorenzo); «Questo bambino è l’altro in cerca di speranza, di attenzione ed empatia» (Giorgia, Luca); «È una scultura che accarezza il mio cuore schiudendolo verso orizzonti pieni di possibilità, di cose da fare, di solarità» (Elenamaria); «Il bambino è inconsapevole come tutti noi che abbiamo perso l’orientamento»(Sara); «L’opera mi trasmette la frustrazione di chi vuole e prova a combattere qualcosa di più grande senza riuscirci» (Mario); «È simbolo della nascita di quel ‘puer’ di virgiliana memoria» (Fiorelena); «È una luce fuori dal tunnel» (Michela); «È un monito a non badare all’aspetto fisico di una persona ma a conoscerla dentro» (Laura e Adriana); «È onirico come tale semplicità riesca a scatenare così tante emozioni» (Viviana). Resto incantata dalle loro voci che si fondono in un’unica grande polifonia di emotività e compassione partecipata.

Penso, allora, che Jago abbia perfettamente centrato il suo intento secondo cui «Ogni persona è libera di vederci quello che vuole». Ed è quindi in questo orizzonte interattivo che è possibile iscrivere la sua scultura. Per questo la si ama e ammira. Perché, oscillando incessantemente tra rappresentazione e astrazione, è presa di coscienza capace di ricomporre la grana del mondo dissodandola e, superando ogni vincolo e sbarramento, è spazio per infiniti lembi di pensiero e affascinanti possibilità d’indagine libera e partecipativa.

di Loredana Troise

 

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