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Lavoro al futuro

  14 Gennaio 2021

Il telelavoro spaventa perché siamo figli della società industriale. La riflessione del professore De Masi sulle nuove forme di lavoro

«Il telelavoro si poteva applicare già da vent’anni, ma è stata necessaria una pandemia per portare otto milioni di persone a svolgere i propri compiti da casa», afferma Domenico De Masi, docente emerito di Sociologia del lavoro all’Università “La Sapienza” di Roma e fondatore della Società Italiana Telelavoro. Negli anni 70 è stato il pioniere del telelavoro e ora parla dello smart working e del south working come le forma di lavoro più produttive, ecologiche e meno costose. All’inizio del 2020 lavoravano in smart working solo 570 mila italiani. Poi, con l’isolamento imposto dal Covid-19, nei primi giorni di marzo, sono passati improvvisamente a 8 milioni.

Professore, cosa è successo all’improvviso, perché c’è questa resistenza allo smart working?

«Per lavorare in smart working c’è voluta la paura della pandemia. Dietro 8 milioni di lavoratori ci sono 800 mila capi e io credo che, il vero problema, siano loro. C’è una visione del potere molto antiquata, basata sul territorio, proprio come gli scimpanzé che proteggono il loro territorio e il territorio dei capi è l’ufficio. In ufficio si sentono “padreterni” e vogliono conservare questa modalità di potere territoriale, fisico. Io dico che soffrono della “sindrome di Clinton”, preferiscono che il proprio stagista sia a portata di mano, nella stanza affianco. Questo spesso, ha poco a che fare con questioni di lavoro e molto con ragioni che attengono al controllo».

Quali possono essere gli svantaggi e i vantaggi di un lavoro gestito da casa? E perché in Italia si è accumulato così tanto ritardo nel seguire questa nuova forma di lavoro?

«Ci sono vantaggi e svantaggi sia per il lavoratore, sia per il sindacato, sia per l’azienda, sia per la città. Vediamoli uno per uno. Per il lavoratore c’è anzitutto il risparmio di tempo, di soldi e di stress, perché spostarsi da casa tutti i giorni richiede diverso tempo. C’è inoltre la possibilità di gestire il lavoro con i propri ritmi e gli orari sono molto più fluidi, posso gestire molto meglio i rapporti familiari, con gli amici, con il quartiere. Per quanto riguarda l’azienda ci sono vantaggi enormi: risparmia ovviamente le location per gli uffici, risparmia la guardiania, il riscaldamento. C’è meno conflittualità e meno turnover, ma soprattutto c’è maggiore produttività. Si calcola che la produttività aumenti del 18-20% lavorando in smart working piuttosto che in ufficio. Poi ci sono i vantaggi per la città: naturalmente si evitano gli intasamenti del traffico, e non è poco, si evita soprattutto l’inquinamento dovuto al transito, si evitano incidenti (il 60% degli incidenti avvengono durante il pendolarismo) e si evitano le spese per la manutenzione stradale».

E gli svantaggi?

«Per il lavoratore c’è la necessità di riorganizzarsi a casa, prima lavorava in ufficio dove tutto era predisposto dall’azienda. C’è la possibilità e il pericolo di isolarsi un po’ troppo, se non si sa organizzare la vita, e c’è il pericolo di mischiare troppo il lavoro con la famiglia, danneggiando sia l’uno che l’altro. Per l’azienda svantaggi non ne vedo e neppure per la città».

Queste nuove forme di lavoro prevedono una nuova riorganizzazione per obiettivi. È l’inizio, quindi, di un processo che vede rivoluzionato non solo il tempo, il luogo di lavoro ma anche il suo significato, il suo contenuto e il suo ruolo.

«Certo, però questa rivoluzione è fallita perché il lavoratore deve fare lo stesso lavoro che faceva in ufficio, non cambia nulla come “senso del lavoro”. Cambia invece la modalità con cui io, fruendo di maggiore libertà, di maggiore autonomia, mi autodetermino molto più di prima».

Lei è il maggior studioso e teorico italiano dello smart working. In 40 anni di esperienze e ricerche nel settore e durante il primo lockdown, ha coordinato una ricerca e, con il contributo di imprenditori, manager, accademici e ricercatori, ripercorre il cammino che ha portato dalla bottega rinascimentale alla rivoluzione digitale. Cosa è emerso dalla sua indagine?

«È emerso che sicuramente non si tornerà indietro del tutto e che, sicuramente dopo la pandemia, i capi che hanno rifiutato il concetto di lavoro snello prima, lo rifiuteranno anche dopo e cercheranno di portare “le pecorelle nell’ovile aziendale”. Ma ciò nonostante, mezzo milione di persone continuerà a telelavorare, con tutti i vantaggi analizzati prima. Lo noteremo nella città, nel traffico, come in questi giorni praticamente, e nelle famiglie perché continuerà anche la divisione dei ruoli dei familiari: ora non c’è più scusa per il lavoratore maschio a non aiutare in casa».

A suo parere sarà giusto un ritorno alla normalità, come eravamo prima, o dobbiamo organizzare una società diversa?

«Va organizzata una società diversa ma non perché c’è stata la pandemia. Andava organizzata già prima una società diversa e non l’abbiamo fatto, sicuramente una società meno diseguale: abbiamo 10 famiglie ricche che hanno la ricchezza di 6 milioni di poveri».

De Masi, lei è un attento osservatore della nostra società. Cosa immagina dopo questa emergenza?

«Dobbiamo imparare a telelavorare, ed è già un bel passo avanti. Non crede!»

di Daniela Rocca

 

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