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Il “pittore rapper” in-canta Napoli

  30 Aprile 2020

Renato Carosone, genio eclettico ma sempre outsider

L’artista, musicista, compositore, pittore e primo “rapper napoletano” festeggia quest’anno i suoi primi 100 anni di età insieme ai suoi amici e colleghi Federico Fellini ed Alberto Sordi.

“Correva l’anno 1968 … “, (come di solito si usa dire iniziando un racconto), quando tra gli iscritti del corso di pittura dell’Accademia di Belle arti di Brera, compariva il nome di un aspirante artista non più giovanissimo. Era il quasi cinquantenne Renato Carusone (in arte Carosone) che dopo anni e anni di successi, ottenuti come pianista, cantante e autore di tanti e tanti brani diventati evergreen internazionali, si concedeva una pausa di riflessione dedicandosi alla pittura, una sua seconda passione coltivata parallelamente alla musica, seguendo le orme di suo figlio Pino.

Molti, ma non tutti, sanno che il nostro “Renato Canta Napoli” (oltre a tutti i suoi grandi successi musicali come: “O Sarracino”, ”Tu VuòFà L’Americano”, “Maruzzella”, “”Torero”, “Caravan Petrol”, “La Donna Riccia”, “Scapricciatiello”, “ChellaLlà”, ”Io, Mammet e Tu”, “Mambo Italiano”, “T’è Piaciuta”, “Pianofortissimo” e tanti altri, pubblicati nei suoi numerosi albums, molti dei quali intitolati “Carosello Carosone” e portati in tour internazionali con successi strepitosi), ha prodotto una serie di dipinti, olio su tela, che sono stati più volte esposti al pubblico. Dalle prime mostre itineranti, allestite in vita, presso la Casina Pompeiana di Napoli 1993, presso la Show-room Publiarte di Salerno nel 1994 e presso la Galleria Ca’ d’Oro di Roma, nel 2000, fino alle due straordinarie mostre antologiche, post mortem, allestite a Castel Sant’Angelo di Roma nel 2007 e al Maschio Angioino di Napoli nel 2011 (quest’ultima inserita nell’ambito del prestigioso “Premio Carosone” ideato dal giornalista Federico Vacalebre che, con il grande Renato, ha scritto anche il libro biografico “Un Americano a Napoli” – rieditato quest’anno con il nuovo titolo “Carosone 100”), molte persone e illustri colleghi come Renzo Arbore e Maurizio Costanzo passando per artisti come Renzo Vespignani, hanno espresso pubblicamente la propria ammirazione per il Carosone pittore.

Un pittore dallo stile moderno, sicuramente grande stimatore di Picasso, in bilico tra cubismo, futurismo ed astrattismo.

“… La pittura di Renato Carosone – scrive Renzo Arbore nel catalogo della mostra alla Casina Pompeiana, Napoli 1993 – è assolutamente musicale, ricca di cadenze, una suggestione peraltro dovuta a un autentico talento istintivo, che è estroso ma anche poetico…”. Sempre sul catalogo della Casina Pompeiana scriveva invece Maurizio Costanzo “… Sono un antico estimatore di Renato Carosone. Ho trascorso alcuni anni della mia giovinezza ascoltando, fino a consumarli, i suoi 45 giri (…). L’attuale occasione non riguarda la carriera di musicista e d’interprete di Renato Carosone, bensì l’altro suo “io”, quello avvezzo a frequentare tavolozza e pennelli. I quaranta quadri di questa sua mostra sono in qualche modo parenti del Carosone musicista, sono anche loro attraversati da una vena di ironia sorridente e mai irridente”. “… Non avevo sospettato in questi anni – scrive l’esperto Renzo Vespignani nel depliant della mostra alla Galleria Ca’ d’oro di Roma nel 2000 – che Renato dipingesse con una tensione delle forme niente affatto dilettantesca…”.

Era solo un bambino quando Renato, aggirandosi curiosamente tra le quinte e la platea del teatro Mercadante, dove lavorava suo padre, scoprì il fascino dell’arte e dello spettacolo. Appena diciasettenne, diplomatosi al Conservatorio San Pietro A Majella di Napoli, fu scritturato come “caporchestra” di una compagnia diretta dal “capo comico” Aldo Russo, con cui girò il mondo approdando principalmente sulle coste africane. Negli anni ’40, finita la guerra, Carosone, con una grande nostalgia per quei territori stranieri che aveva esplorato e con uno sviscerato amore per l’Africa, riprende a suonare il piano, in giro per l’Italia, con varie orchestrine nei “night club”, così chiamati i locali dell’epoca. Dopo alcuni anni, e precisamente nel 1949, creò il suo primo gruppo che portava il suo nome. Nacque così il “Trio Carosone” (con il chitarrista olandese Peter Van Wood e il batterista, napoletano come lui, Gegè Di Giacomo, entrambi scelti dopo una accurata selezione); da lì in poi nasceva e cresceva la sua leggenda legata, successivamente, anche al suo sodalizio con il paroliere Nisa (pseudonimo di Nicola Salerno), con cui ha composto gran parte dei suoi innumerevoli successi. Ma è inutile raccontare la biografia del grande Carosone, credo che tutti conoscano le gesta di questo grande “mito” e il suo linguaggio innovativo che ha rivoluzionato la scena musicale napoletana, e forse internazionale, dal dopo guerra in poi. Basta cliccare su un motore di ricerca di un computer o di un semplice smartphone per sapere più a fondo la sua storia. Tuttavia ci piace evidenziarne il carattere estroverso ed eclettico, assieme alla sua intuizione, la sua genialità e il suo grande talento di artista a tutto tondo. Carosone ha anticipato i tempi ed è stato un grande innovatore. La sua musica, pur rimanendo in sintonia con i desideri e i piaceri del suo pubblico, è sempre stata all’avanguardia. A suo modo, e forse istintivamente, è stato anche il primo rapper napoletano in tempi non sospetti. I versi del suo brano ricco di brio ed ironia: “Pigliate ‘na pastiglia”, inciso nel 1957 ed inserito nell’album “Carosello Carosone 6”, ne sono un magico esempio:

“…Alle palline ‘e glicerofosfato,
Bromotelevisionato,
Diddittí, bicarbonato,

Borotalco e seme ‘e lino,
Cataplasma e semolino,
Na custata â fiorentina,
Mortadella e dujepanine
Cu nu miezu litro ‘e vino,
Nu caffé con caffeina,
Grammi zero, zero, tre. Ah!
Pígliatena pastiglia, siente a me!…”

Ci piace, però, dulcis in fundo, ricordare questa sua poesia/canzone “Lettera di un pianista”, in cui Carosone esprime la giusta misura della sua sensibilità:

«Musica madre mia! Quando mi mettesti al mondo, il mio primo vagito fu un la , ti ricordi? Un la naturale. Le altre note me le hai insegnate dopo. E le ho imparate con fatica, con rabbia, camminando a piccoli passi su quel sentiero irto di difficoltà, quel sentiero di ebano e avorio. Un passo bianco e un passo nero, uno bianco e uno nero. A tempo, con ritmo preciso, preciso. E li ho incontrati tutti su quel sentiero, sai? Pozzoli, Hancon, Clementi, Czerny, Chopin, Bach, Beethoven, Liszt… Madre mia, ti degnano appena appena di uno sguardo. Che severità. Più alla mano gli altri. Oggi questo sentiero è splendido, luminoso. Ci passeggio, ci respiro, ci canto, ci suono e lo percorro su e giù con sicurezza, con gioia immensa. E non guardo nemmeno più dove metto il piede, tanto lo conosco. Sì, ora lo conosco, è mio! Ma che fatica madre mia, sorella mia, amante mia! Tu sei la lingua più bella del mondo, la lingua che non si parla, eppure comprensibile a tutti, proprio tutti. È la lingua che parlano gli angeli in paradiso, perciò ti amo. E ti prego: quando sarà giunto il momento, di’ a quella signora di non cercarmi. L’appuntamento è lì, su quel sentiero bianco e nero di ebano e avorio. Io sarò lì, puntuale e sereno. E ritornerò nel tuo grembo così come sono venuto. Te ne accorgerai, perché sentirai la mia ultima nota, uguale e identica alla prima che mi insegnasti, ti ricordi? Era un la, un la naturale!»

Tanti Auguri Renato, altri cento di questi giorni a te, Alberto e Federico!

> di Lino Vairetti, musicista

 

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