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Il richiamo di Mamma Africa: l’Onlus I Care non si ferma

  21 Febbraio 2020

“Questo non può essere lo stesso mondo da cui proveniamo”

è la prima cosa che abbiamo pensato appena arrivati a Kampala, in Uganda, piccolo stato dell’Africa Orientale. In questa terra, in particolare a Mulagi, un villaggio distante circa 300 km dalla capitale, nel 1996, nasce una Missione ad opera della Congregazione Ancelle Eucaristiche di Melito; essa è affiancata dall’Onlus I Care, che in questi anni ha portato in maniera concreta la solidarietà e le risorse per le attività della Missione. Dal giorno in cui è stata posta la prima pietra a Mulagi fino ad oggi il cammino non è stato facile. La tenacia, la caparbietà e la fede da parte di poche suore e volenterosi laici hanno permesso di superare molte difficoltà e fornito grande motivazione. Scuole, ambulatori, case di accoglienza, pozzi per l’acqua e tanto altro, sono necessità primarie per un popolo duramente provato dalla fame, dalla miseria, dalla siccità, dalla guerra e da gravi emergenze sanitarie. Portiamo direttamente sul posto gli aiuti che arrivano, con la garanzia che tutti gli sforzi proferiti per raccogliere fondi, andranno certamente a buon fine.

Dalla diffidenza è nata la fiducia, dalla disperazione la speranza, da una capanna sotto un albero una casa che ospita e sostiene migliaia di persone.

Quest’estate noi missionari dell’Onlus I Care, con il vice-presidente dell’associazione Antonio Mallardo, siamo tornati, come ogni anno, in Africa. La missione di Mulagi è ormai diventata una realtà importante dell’Est Uganda. Sapere che siamo riusciti a finanziare 59 pozzi che danno acqua a oltre 100mila persone, di cui 70mila bambini, ci riempie di gioia e responsabilità. Quest’anno in poco più di due settimane abbiamo inaugurato quattro pozzi ed una sala operatoria, costruita con l’impegno ed i sacrifici di tutti coloro che hanno partecipato alle molteplici iniziative benefiche durante l’anno. La nuova sala operatoria, in un paese dove si muore ancora di appendicite, salverà centinaia di vite umane. Non ci possiamo fermare, non ci possiamo distrarre, il prossimo è qui e non dobbiamo ignorarlo. Dopo aver costruito un pozzo, subito ci accorgiamo che ne servono altri. Ogni scuola che inauguriamo non basta per tutti i bambini del villaggio. La verità è che dall’Africa non si torna più. Il suo profumo si insinua in tutte le membra, in ogni ruga di tessuto. L’Africa, quando la senti dentro, diventa un modo di vivere, il tentativo costante e quotidiano di fare qualcosa di piccolo, con la consapevolezza di poter, insieme, fare qualcosa di grandioso. Africa per noi significa guardare solo un poco, neanche troppo, al di là del proprio orto, al di fuori del proprio cerchio, chiuso, con al centro noi stessi e le nostre esigenze e lasciare un briciolo di spazio e di tempo per qualcun altro.

Africa significa: andare in mille pezzi e ritrovarli, dopo un po’, ognuno al proprio posto; ritrovarti, nudo e debole, a immaginarti nel mondo; ascoltare tutta la notte un’intera orchestra di suoni e voci segrete che ti raggiungono dalle dune, dalle pozze, dagli alberi, e se si cercano le creature invisibili che animano la notte, ci si accorge che, spesso per un attimo, occhi, rossi o gialli, sbirciano perforando il buio. Significa sentirsi coinvolti nella profondità oscura dello spirito africano e capire, con umiltà e orgoglio, che l’Africa ti ha accettato e che, nel suo modo imperscrutabile, ti ha scelto a sua volta. Quando ci sembrava di perderci tra la foresta equatoriale, profumata e selvaggia, tra i bambini a cui donavamo caramelle e le donne che calpestavano il miglio, ci veniva da chiederci dove fosse il resto del mondo.

Quest’estate siamo partiti in quindici. Quindici vite, quindici storie, che a guardarle un po’ più da lontano, ne sembrano una sola. Una storia di speranza, di salvezza, un’unica richiesta di aiuto. Appena arrivati nel primo villaggio eravamo già uguali a loro, già dall’altra parte, confusi in quel fluttuare di occhi, di rughe, di smorfie. C’erano molti bambini, erano così piccoli, gracili e il loro canto era un lamento alto e stridulo che suonava come il richiamo di un uccello nel mezzogiorno. Abbiamo toccato l’acqua pieni di orgoglio, come fosse la prima volta e stretto molte mani. La verità è che tutto diventa importante se capisci che ti è stato donato.

Non ci resta che dirti grazie, mamma Africa, per le volte in cui abbiamo sentito i nostri piedi esattamente al centro della terra, perché ogni giorno sentiamo l’eco del suono dell’acqua sui corpi nudi dei bambini ai margini delle strade, pensiamo al gioco di equilibri delle donne che reggono sul capo taniche gialle, all’instancabile ritmo dei loro piedi sulla terra rossa. Grazie perché ci hai insegnato la fedeltà totale, la dedizione leale e incondizionata del proprio posto di combattimento, ci hai costretto a fare la nostra parte senza mai nasconderci dietro un cespuglio. Noi lo chiamiamo miracolo. Ti guardiamo, ogni anno, mentre germogli, ostinata, e assorbi nei tuoi frutti l’amaro sapore della libertà, mentre continui a lasciare sulla nostra pelle segni e sogni indelebili. Noi restiamo qui, accanto a te, Mamma Africa, a difendere questa umanità.

> di Valentina Bonavolontà

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