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Frutti di una fertile terra: le delizie del Vulcano

  17 Febbraio 2020

Itinerari tra i gusti più autentici dell’agricoltura campana

Se è vero che dalle ceneri la vita possa rinascere come la mitica Fenice, il Vesuvio ne è la prova luminosa: prima dolce montagna piena di vegetazione, fauna e vigneti, poi, dopo la terribile eruzione, terrificate voragine di fuoco e gas micidiali. Nei secoli, la vita ha ripreso il ciclo vitale ed oggi, grazie al clima mite ed alla vicinanza alla costa, l’area intorno al Vesuvio è  fertilissima terra ricca di fauna, di vegetazione e di biodiversità.

Il “Piennolo”

Uno dei prodotti più antichi ed iconici dell’area vesuviana è il Pomodorino del Piennolo, tutelato dall’omonimo Consorzio, che può essere coltivato solo a trecento metri sul livello del mare e prospera grazie al suolo vulcanico ricco di sali minerali. DOP dal 2009, il famoso biotipo raggruppa, a sua volta, numerose cultivar e biotipi locali, dalle fantasiose denominazioni popolari come Fiaschella, Lampadina, Patanara, Principe Borghese e Re Umberto, che condividono le medesime caratteristiche: consistenza di buccia (dal colore rosso scuro) e polpa, alta concentrazione di zuccheri e acidi, e forma allungata, lievemente a pera o a cuore. Proprio questa particolare forma ha consentito, nei secoli, la conservazione dei pomodorini appesi sui balconi a grappolo perché si conservassero per tutto il periodo invernale, prendendone, così, il nome di piennolo (pendolo) o spongillo (per il pizzo che presentano alla loro estremità). In origine giallo, come ben suggerisce il nome, ‘pomo d’oro’, la pianta del Pomodorino giallo del Vesuvio, appartenente alla varietà Giagiù, venne usata come ornamento e, poi, come medicinale. Fu soltanto nella metà del XVIII secolo che si iniziò ad usarlo in cucina, come attestano documenti storici di autori come Francesco De Rosa e il prof. Marzio Cozzolino della Facoltà di Agraria di Portici. Dal tipico pizzo allungato, il Pomodorino giallo del Vesuvio è molto apprezzato per la sua dolcezza e l’assenza di acidità che ne favoriscono l’impiego in preparazioni più delicate e raffinate. Dal punto di vista salutistico, il Pomodorino giallo è ricco di beta-carotene, di sostanze dall’elevato potere antiossidante e di vitamina A, C e B, caratteristiche che hanno consentito il suo inserimento tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

La “Crisommola”

Crisommola (dal greco chrissomelos, ovvero mele d’oro) è il nome nel dialetto napoletano che indica un antichissimo biotipo di albicocca attecchita alle falde del Vesuvio, oggi insignita del marchio PAT e presidio Slow Food, una vera eccellenza caratterizzata dall’intenso aroma tendente al mielato e da una straordinaria dolcezza. Frutto di origini antichissime, proveniente dalla Cina, l’albicocca ha fatto un lunghissimo viaggio prima di giungere a noi, passando per l’Armenia, la Turchia e la Grecia. Lungo la catena montuosa del Tauro Orientale, costellata di laghi in cui si specchiano le montagne, la terra è disegnata da striature verticali, segno di fertilità ed abbondanza di colture: l’economia di Malatya e della sua area ruota intorno alla produzione di albicocche, Kayisi, in turco, e qui si concentra l’80% della produzione mondiale. Facile, dunque, dedurre che i nostri avi, durante le loro campagne di conquista ed esplorazione dei territori, abbiano voluto introdurre in Italia questo frutto straordinario, come testimonia già nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio. Nel 1583, lo scienziato napoletano Gian Battista Della Porta, nell’opera “Suae Villae Pomarium”, operò una divisione delle albicocche in due grandi gruppi: le Bericocche, dalla forma tonda, la polpa molle e bianca aderente al nocciolo, e le Chrisomele, con la polpa non aderente al nocciolo, molto colorate e più pregiate. L’Albicocca Vesuviana oggi conta decine di varietà autoctone differenti, che la cultura popolare indica con nomi “pittoreschi”, come Baracca, Boccuccia Liscia, Boccuccia Spinosa, Pellecchiella, Portici, Ceccona, Palummella, Vitillo, San Castrese, Fracasso, Cafona, Prete, Prete bello, Taviello, San Francesco, Setacciara e Acqua di Serino, che traggono le loro eccellenti proprietà dai terreni fertilissimi alle falde del Vesuvio, ricchi di potassio e minerali. Raccolta già a partire dalla metà del mese di giugno, la produzione vesuviana di albicocche rappresenta l’80% di quella campana, con circa 50.000 tonnellate. L’impiego è a 360 gradi, sia come frutta da mangiare che da utilizzare in cucina per le più svariate e fantasiose ricette dolci, come confetture, marmellate, succhi, sciroppi, nettari e canditi e anche ardite proposte salate, come ad esempio, la tradizionale pizza napoletana in versione gourmet.

I Piselli “centogiorni”

Semplice e dolcissimo, questo legume ha origini antichissime, forse, addirittura il  più antico del mondo, vista la sua coltivazione nell’area vesuviana risalente all’epoca dei Greci, dei Romani e degli Etruschi. Frutto di un’accurata selezione nei secoli degli agricoltori campani, la varietà pisello “centogiorni” (che deve il proprio nome alla durata del ciclo produttivo), è stata molto estesa fino agli anni ’70 quando, poi, l’avvento dell’industrializzazione ha preso il sopravvento in favore di varietà più produttive e adatte alla trasformazione meccanizzata.

Grazie all’impegno delle famiglie locali ed alla custodia della semente negli orti domestici, la rara varietà “centogiorni” è stata tramandata di generazione in generazione ed è oggi custodita presso la banca del Germoplasma Orticolo Campano, nonché Presidio Slow Food. La varietà “centogiorni” è una delle tipicità campane inserite nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali, particolarmente apprezzata per le sue proprietà organolettiche, tra cui la particolare dolcezza e la consistenza tenera della buccia anche allo stato secco, che la rende adatta ai più svariati utilizzi in cucina, come la tradizionale pasta e piselli napoletana, sintesi di gusto e semplicità.

L’uva Catalana del Monte Somma IGP

Da circa un decennio, il Vesuvio ha ritrovato la sua squisita vocazione vitivinicola, così come era stato per molti secoli, prima che l’abusivismo edilizio degli anni ’80 ne soffocasse territorio e velleità. Oggi la qualità è il tratto connotativo del recupero di antichi vitigni storici, come il Caprettone, la Catalanesca e il Piedirosso, caratterizzati da una beva leggera e piacevole, spiccata mineralità, lieve sapidità e finale dalle note amaricanti, oltre al più famoso Lacryma Christi. Tra i vitigni autoctoni del Vesuvio, la Catalanesca, importata dalla Catalogna da Alfonso I d’Aragona nel XV secolo, è quella che esprime caratteristiche più originali, non solo per le sue bacche dorate e rotonde, la polpa dolce e croccante e ricca di vinaccioli, ma anche per la modalità di raccolta delle uve, tra ottobre e novembre protratta fino alla fine dell’anno, lasciando sulla pianta i grappoli migliori ed eliminando via via gli acini guasti come la tradizione contadina usava fare per averne a tavola fino a Natale. Già, perché quest’uva, sebbene fosse già vinificata dai contadini nel XVII secolo, come testimoniano le “cercole”, nome dialettale che indicava le querce, dai cui tronchi si ricavavano gli enormi torchi vinari presenti ancora oggi in alcune masserie locali, solo nel 2006 la Catalanesca è stata ufficialmente inserita nell’elenco delle uve da vino atte ad essere vinificate, grazie agli studi condotti negli anni ’90 da Luigi Moio e Michele Manzo. Dal 2001 la Catalanesca del Monte Somma è IGP.

di Carmen Guerriero

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