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Napoli è donna: Scritture al femminile

  24 Luglio 2019

Per favore non chiamatemi scrittrice napoletana.

Il monito è di Fabrizia Ramondino, autrice su “L’Indice” di un vero e proprio “Manifesto contro la definizione scrittori napoletani” con la quale suo malgrado fu etichettata. Lo utilizziamo per andare subito al cuore dell’argomento, potremmo definirlo “il contributo della scrittura femminile alla creazione dell’immaginario napoletano” sapendo di imbatterci però in un’altra etichetta, anche questa molto discussa, della scrittura al femminile. Insomma una scrittrice di Napoli o che racconti Napoli dovrà mostrare i denti per evitare il doppio marchio che vorrebbe confinarla nei limiti del suo genere femminile e nei confini angusti del parlar di Napoli a tutti i costi. Il tema però è suggestivo: donne scrittrici e Napoli.

Ineludibile la figura di Matilde Serao. Giornalista e scrittrice tra le più note di Napoli nell’epoca post-unitaria. Acuta e determinata nel raccontare con toni spesso forti le tragiche condizioni della plebe in una serie di articoli pubblicati sul giornale romano “Capitan Fracassa”, poi raccolti nel volume “Il ventre di Napoli”. È un popolo, quello napoletano, secondo la Serao, che meriterebbe di essere felice. È gente umile, bonaria, che sarebbe felice per poco e invece non ha nulla per essere felice; che sopporta con dolcezza, con pazienza, la miseria, la fame quotidiana, l’indifferenza di coloro che dovrebbero amarla, l’abbandono di coloro che dovrebbero sollevarla.

Sembra un controcanto la risposta della scrittrice romana Anna Maria Ortese, che, a quasi un secolo di distanza, scrive nel “Silenzio della ragione”: “Si scopriva non esservi un popolo, al mondo, infelice come il napoletano, e infelice perché malato…” Colpevoli gli intellettuali e la borghesia come afferma con toni feroci ne “Il mare non bagna Napoli”. Le polemiche successive alla pubblicazione del libro, nel 1953, la indussero a lasciare definitivamente la città.

A distanza di pochi anni, Elsa Morante ci porta a Procida col suo sorprendente e intenso romanzo “L’isola di Arturo”, Premio Strega 1957. La città con le sue voci è contrapposta all’isola con i suoi silenzi. “Mai, neppure nella buona stagione, le nostre spiagge solitarie conoscono il chiasso dei bagnanti che da Napoli e da tutte le città, e da tutte le parti del mondo, vanno ad affollare le altre spiagge dei dintorni. E se per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per le strade e canti, e suoni di chitarre e mandolini, per cui la regione di Napoli è conosciuta su tutta la terra”.

La napoletana Fabrizia Ramondino, in “Taccuino Tedesco”, conia la metafora della città balia per esprimere la distanza che sembra imporre ai suoi stessi figli. Siamo nel 1986. “Napoli ha della balia la povertà e il primo latte, le forme rotonde e barocche, l’odore di feci ora di biancheria lavata di fresco; e di tutte le balie del mondo condivide la sorte: le sono strappati gli esseri che ha nutrito da più ricchi padroni.” Da Napoli bisogna allontanarsi ed è ciò che la Ramondino farà.

> di Vincenza Alfano

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