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Artigianato, il futuro ha un cuore antico

  16 Gennaio 2019

Ceramica, guanti, oro e corallo: viaggio tra le eccellenze che il mondo ci invidia

Le strategie di sviluppo territoriale devono necessariamente prevedere la conoscenza delle attività produttive che lo caratterizzano. Nel contesto napoletano non si può prescindere dall’artigianato artistico inteso come strumento di promozione del territorio partenopeo. L’arte del saper fare a Napoli si manifesta da secoli in diversi settori, dalla porcellana al corallo, dalla lavorazione del pellame a quella dell’oro.

Tra gli esempi di artigianato artistico che meglio rappresentano la cultura napoletana e la sua storia non può mancare la porcellana di Capodimonte, famosa nel mondo e legata alla dinastia borbonica. Fu Carlo II di Borbone, Re delle Due Sicilie, ad impiantare nel 1743 in una palazzina nel bosco di Capodimonte la Real Fabbrica delle Porcellane, sulla falsariga dei manufatti tedeschi prodotti a Meissen. Sin dalle primissime produzioni ci si focalizzò sulle caratteristiche uniche dell’impasto: una mistura di varie argille e feldspato (un minerale presente nelle rocce eruttive). Il composto ottenuto, dal colore bianco-grigio, si presenta molto morbido e conferisce alla materia grande plasmabilità e quindi all’oggetto finito un’armonia delle forme e, in seguito alla decorazione a mano, un particolare effetto “sottovetro”.

La Real Fabbrica impiantata da Carlo II ebbe però vita breve. Richiamato in Spagna per ricoprire il trono, il sovrano lasciò Napoli nel 1759, decidendo di radere al suolo la fabbrica e di portare con sé tutte le opere. Nel 1771 Ferdinando I ripristinò l’impresa. Nacque così la Real Fabbrica Ferdinandea, sita prima a Portici e successivamente nel Palazzo Reale di Napoli, dove fu attiva fino al 1806. Il periodo più florido della produzione si colloca sul finire del ‘700, quando nacque una vera e propria scuola d’arte guidata da Domenico Venuti, le cui opere sono conservate al Museo di Capodimonte.

Dal 1961 gli edifici che ospitarono la prima fabbrica sono sede dell’Istituto Professionale per la Ceramica e la Porcellana Giovanni Caselli, l’unico in Italia preposto alla preparazione di tecnici specializzati nel settore ceramico. L’Istituto è stato insignito della medaglia della Presidenza della Repubblica ed oggi detiene persino il marchio di fabbrica dell’antico Giglio Borbonico che contrassegnava le opere prodotte durante il regno di Carlo II di Borbone.

Un’altra tradizione di artigianato partenopeo la ritroviamo nella guanteria. La selezione di tessuti pregiati e di qualità, la lavorazione a mano del pellame, l’utilizzo di antiche macchine per cucire si fondono con un rigoroso e moderno controllo di qualità. A Napoli l’utilizzo dei guanti era in voga tra i ceti sociali più abbienti già durante il vicereame. Nel 1500 le prime botteghe aprirono in quella che tuttora è Via dei Guantai Nuovi, alle spalle di Via Medina. La produzione ebbe un decollo tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, durante il Regno delle Due Sicilie con Ferdinando I di Borbone che incentivò tutte le forme di artigianato. L’arte guantaia conobbe un ulteriore incremento nei primi del ‘900, quasi sempre grazie all’ostinazione di intere famiglie decise a portar avanti una tradizione secolare. Il secondo dopoguerra segnò il tracollo dell’artigianato napoletano: la guanteria, un tempo talmente florida da far sì che Napoli venisse definita la “Capitale mondiale del guanto”, è sopravvissuta in alcuni quartieri storici, come alla Sanità dove, percorrendo Salita Sant’Elia, ci si imbatte nella Forino Gloves, azienda che dal 1899 mantiene viva la tradizione guantaia artigianale strizzando l’occhio all’innovazione produttiva. “Ci auguriamo di tramandare la storica arte aziendale – dice Daniela Forino, terza generazione di artigiani guantai -, diffondendo la nostra tradizione artigianale in altri mercati potenziali”.

Nei secoli Napoli ha saputo distinguersi anche nella lavorazione di metalli preziosi, soprattutto oro e argento. Il Borgo degli Orefici da sempre è il fulcro di quest’arte: il nucleo originario nacque in epoca medioevale con il patrocinio della Regina Giovanna I d’Angiò, la quale concesse alle botteghe artigiane il riconoscimento ufficiale facendo redigere il primo statuto codificato della Corporazione Orafa di Napoli. I primi maestri orafi non erano partenopei, bensì francesi, tuttavia gli artigiani locali seppero in breve tempo rubare loro il mestiere fino a soppiantarli completamente, instaurando una tradizione orafa riconosciuta in tutta Europa.

Fino al 1600 nelle botteghe del Borgo Orefici si lavorava anche il corallo; poi, verso la fine del XVII secolo, il viceré Marchese del Caprio stabilì che in questa zona si potesse esercitare solo l’arte degli argentieri e degli orefici e che la manifattura della gemma marina fosse spostata a Torre del Greco, luogo, tuttora, legato a questa lavorazione. Il XVIII secolo fu molto florido per gli artigiani orafi partenopei, basti pensare che nel 1713 Matteo Treglia realizzò la celebre Mitra di San Gennaro, pagata in gran parte con le offerte dei cittadini. Inoltre, nel 1734 Carlo di Borbone fondò il Real Laboratorio delle Pietre Dure e, nel 1738, il Real Laboratorio di San Carlo alle Mortelle.

Nel 1800 Ferdinando I di Borbone abolì le corporazioni dando così benefici fiscali agli orefici affinché aprissero nuove attività. A partire dal 1996 la quasi totalità delle aziende si sono trasferite presso il Centro Orafo Tarì di Marcianise; gli artigiani rimasti, per perpetuare una tradizione tramandata di padre in figlio, diedero vita nel 2000 al Consorzio Antico Borgo Orefici, la cui sede è presso il palazzo “La Bulla”: ben quattro piani in cui trovano spazio un museo ed una scuola orafa.

“Il saper fare dell’artigiano del passato è un caveau di saperi, vita, esperienze, ricchezza, tradizione, storia, che può creare benefici per il futuro – dice Ilaria Mainini, direttrice dei corsi di formazione del Consorzio -. Questo saper fare deve assolutamente essere tramandato alle nuove generazioni, avendo però cura di aprirsi alla modernità e adeguarsi al tempo presente. Proprio al tempo presente è legata la formazione professionale, capace di tramandare l’arte dell’artigianato orafo e di tenere insieme il passato e il futuro, la tradizione e l’innovazione, le forme tipiche e il design contemporaneo”.

Come detto, un ruolo di rilievo nell’artigianato napoletano spetta alla lavorazione del corallo. Nel 1600, specialmente nell’Italia meridionale, venivano prodotti oggetti sacri di raffinato artigianato rivolti alle corti italiane e spagnole e Napoli, pur non avendo il monopolio del corallo grezzo, era tra le più importanti città per la sua lavorazione. A partire dal 1700 i maestri corallari cominciarono ad operare a Torre del Greco e nel 1800 Ferdinando IV di Borbone riuscì ad aprire la prima fabbrica spostando la produzione da oggetti sacri a quelli di uso comune e quotidiano, richiesti insistentemente dalla borghesia emergente. Nel 1876 fu istituita la Scuola d’Incisione sul Corallo e di Disegno artistico industriale, che mantiene ancora oggi il primato nella lavorazione del caratteristico cameo.

“Non esiste altro luogo al mondo capace come Napoli di concentrare sul proprio territorio eccellenze artigianali in tanti settori diversi – dice Mauro Ascione, esponente di una storica famiglia di imprenditori del settore coralli -. In un’era in cui vengono posti all’attenzione dei mercati oggetti con forte contenuto tecnologico, innovativo e di produzione industriale, è chiaro che il comparto artigianale diventi sempre più di nicchia e non apprezzato per il suo contenuto culturale. Per rilanciare il settore occorre, utilizzando anche i più moderni mezzi di comunicazione, e con un marketing più appropriato, rilanciare i prodotti esaltando gli altissimi valori immateriali di oggetti che rappresentano la storia, la tradizione, la manualità, le competenze e la cultura del territorio”.

> di Aurora Rennella

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