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Non solo canzonette: Festival musicali, istruzioni per l’Uso

  29 Novembre 2018

D’estate sono andato a seguire un concerto di Tigran Hamasyan, uno dei pianisti più acclamati del momento, capace di fondere culture e stili musicali, dal jazz alla composizione di frontiera. Gli spalti risultavano pieni per circa un terzo della capienza, creando una imbarazzante e inusuale situazione. Com’è possibile? Non ho potuto fare a meno d’ascoltare quello che diceva una vicina di fila: “Ah, ma come, non c’è il… tamburo?”. Evidentemente avendo sentito dire che il concerto aveva a che fare con il jazz, la cara signora si aspettava la presenza di una sezione ritmica, di una batteria, insomma di qualcosa che “facesse ammuina”.

Da questo piccolo sketch possiamo dedurre alcune interessanti e brevi riflessioni sui festival, e su quelli estivi in particolare.

Primo: la programmazione. Se la scelta degli artisti avviene seguendo un criterio di semplice ‘sommatoria’, un po’ di questo, un po’ di quello, un po’ che piace a me, un po’ che piace al pubblico o fa rassegna stampa, allora ciò non consente la necessaria lettura trasversale della programmazione. Quest’ultima appare improvvisata, dettata dalle regole dell’essere. Invece, le scelte devono sempre essere effettuate su intuizioni che appartengono al dover essere: idee nuove, o anche tradizionali, innovative o di repertorio, ma sempre in grado di mantenere una riconoscibilità non occasionale, forte, e costituirsi quale ‘evento’.

Oggi, invece, se una rassegna estiva conta dieci appuntamenti, chi la propone parla sempre di ‘eventi’: ma l’evenienza non può essere casuale. Richard Wagner dice nel Tristano: “Anche allora io sono il mondo”, qualificando l’arte come desiderio, e l’estetismo come estasi per la bellezza. Thomas Mann riferisce tutto questo a qualcosa di profondamente antiborghese. Una programmazione di alto profilo non può che farsi opera essa stessa; naturalmente, opera metaestetica, capace cioè di fondere e assimilare linee apparentemente divergenti secondo criteri mirabili. Questo, solo questo, lascia traccia e crea il vero ‘evento’.

Secondo: la scelta degli artisti non può essere filtrata da previsioni di botteghino, o peggio vivere “di rendita”, sulla scorta di un trascinamento d’agenzia. Tanto, si dicono gli operatori occasionali, i Festival estivi sono seguiti da villeggianti, da turisti per caso. Costoro, per riempirsi la serata, vanno a qualsiasi concerto serale. Invece no: occorre mescolare, all’insegna della forza estetica ‘unificante’ di cui si diceva poco più sopra, i migliori giovani talenti alle star. Si dovrebbero quindi escludere i musicisti dei territori, se già affermati? No, ma a questi ultimi va richiesto il gesto divergente, quello che li proponga in un’ottica diversa dal solito. Quindi, per cucinare un cartellone memorabile, bisogna strutturare gerarchicamente l’idea unificante e modificare ciò che l’artista, giovane o navigato, star internazionale o del territorio, fa ascoltare di solito in altri luoghi e occasioni.

Terzo: la politica esca dalle scelte. Non posso fare a meno di pensare a un festival che ha nel titolo la parola ‘Spirituale’, e che poi presenta in cartellone artisti che, pur di altissimo livello e pari dignità, nulla hanno a che vedere con quell’indicazione programmatica…

Si dirà che tutte queste prescrizioni sono solo teoriche. Eppure, basta collegarsi a Internet per vedere cosa si fa all’estero, con risultati eccezionali, coinvolgendo appunto i giovani in progettualità che resteranno a lungo nei loro cuori e luoghi.

Questo, per esempio, avviene al Berklee College of Music, e proprio con Tigran Hamasyan: ascoltare per credere: https://youtu.be/-VOZLG-FlvI.

> di Girolamo de Simone 

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