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Tigem: la ricerca è di casa a Napoli

  15 Ottobre 2016

Intervista ad Andrea Ballabio, fondatore e direttore dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina, uno dei centri di eccellenza più all’avanguardia nello studio delle malattie genetiche

Il progresso avviene sempre dove meno ci si aspetta; negli angoli di ex complessi e tra le mura di un’antica città, come quella di Pozzuoli. E a creare il progresso e fare passi da giganti sono i ricercatori del TIGEM (Telethon Institute of Genetics and Medicine), che dal 1994 studiano le malattie genetiche rare: e dal 2014 lo fanno all’interno della nuova sede di Pozzuoli a pochi passi dal mare, nell’ex complesso Olivetti.

«Qui si costruisce un pezzo di futuro del Paese», lo ha detto il premier Matteo Renzi durante la recente visita (19 luglio) al Centro in grado di dar corpo al sogno di Olivetti, disegnando un orizzonte diverso anche per il Sud, grazie all’impegno delle 200 persone che vi lavorano guidate da un direttore scientifico di eccellenza: il prof. Andrea Ballabio, fondatore e direttore del TIGEM, nonché scienziato di fama internazionale.

Prof. Ballabio, nel 1994 lei era oltreoceano, come l’hanno convinta a tornare in Italia per fondare il TIGEM?

Quando ricevetti la telefonata di Susanna Agnelli (all’epoca Presidente di Telethon, n.d.r.) ero negli USA da sette anni, dirigevo un numeroso gruppo di ricercatori e non pensavo di tornare nel mio Paese. La Telethon aveva fino ad allora finanziato progetti su base competitiva, ma era intenzionata a dotarsi di un proprio centro di ricerca. Era una proposta molto stimolante, persino più del lavoro che svolgevo negli States: si trattava di creare da zero un nuovo Istituto, che avrei potuto disegnare secondo i miei canoni.
Le condizioni che avevo posto (stabilità di budget, scelta della sede, dei collaboratori e dei progetti) furono accettate e così, alcuni mesi dopo l’approvazione del progetto, mi trasferii a Milano insieme ad alcuni dei miei collaboratori. Non nascondo che la prospettiva di condurre un’impresa di questo tipo in Italia abbia rappresentato uno stimolo ulteriore, quasi una sfida, portata a termine con una certa soddisfazione.

Poi un’altra sfida: portare il TIGEM da Milano in Campania. Com’è andata?

L’istituto al San Raffaele continuava a crescere, generando un problema di spazi e di costi. Inoltre a Milano era nato l’SR-TIGET (San Raffaele Telethon Institute for Gene Therapy), e avere due centri nella stessa città non risultava strategico, anche nell’ottica di una ripartizione equilibrata degli investimenti tra Nord e Sud. Tramite la collaborazione col CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), che ci ha fornito una sede a titolo gratuito e la partnership con la Federico II e la Seconda Università di Napoli e con l’apporto della Regione Campania, abbiamo individuato la possibilità di trasferirci qui, sfruttando tutti i vantaggi offerti dal territorio.

Ad esempio, sapevo bene che in Campania sarebbe stato più facile attrarre giovani di talento. All’inizio non è stato facile, ma adesso anche i più scettici si sono convinti. Susanna Agnelli, poi, era realmente innamorata di Napoli…

Si è accennato al SR-TIGET di Milano, in cosa si differenziano i due Istituti?

Sono in effetti molto diversi. Noi ci occupiamo della ricerca inerente i meccanismi delle malattie e delle tecnologie utili a studiarli, nonché dello sviluppo di terapie. Il TIGET è invece focalizzato sulla terapia e in particolare su quella genica, che è molto all’avanguardia (e di cui naturalmente ci occupiamo anche noi). Essendo priorità di Telethon trovare le terapie, è ovviamente di fondamentale importanza che entrambi gli Istituti si occupino del loro sviluppo.

Siete coinvolti anche in studi clinici?

Non direttamente nella sede del TIGEM ma abbiamo partnership consolidate con i centri clinici delle Università. In particolare collaboriamo con la Seconda Università su forme di cecità ereditaria, mentre con la Federico II siamo coinvolti in un programma di terapia per le malattie metaboliche dei bambini.

Il “modello TIGEM” è stato evocato come esempio virtuoso non solo nel campo dell’attività scientifica, ma anche per la capacità di attrazione e gestione dei finanziamenti. Può spiegarci in cosa consiste?

Molti colleghi ci considerano dei privilegiati, perché abbiamo Telethon alle spalle. Questo è in parte vero, in quanto l’apporto dei fondi Telethon resta fondamentale ma è anche da sottolineare che abbiamo dimostrato nel tempo di poter utilizzare queste risorse per creare le premesse di un autofinanziamento. La composizione del nostro budget si è modificata significativamente in questi vent’anni. All’inizio erano quasi tutti fondi Telethon, oggi invece questi sono circa il 25%, mentre il restante 75% proviene da finanziamenti che otteniamo su base competitiva internazionale. Di questo 75% alcuni sono finanziamenti provenienti da progetti di ricerca di base, a cui si aggiunge una componente del circa 30% di fondi industriali, quindi investimenti di ditte farmaceutiche.

Può farci alcuni esempi?

Certo, ad esempio la partnership con l’azienda farmaceutica Shire, che ha fatto nel TIGEM di Pozzuoli il suo più rilevante investimento in ricerca extramurale: circa 17 milioni di euro. Un’altra voce importante sono poi i fondi stanziati dall’ERC (European Research Council): i finanziamenti comunitari vengono solitamente assegnati a reti di ricercatori, mentre questi vengono attribuiti al singolo. Sono molto significativi, ma difficilissimi da ottenere.

Qual è invece il contributo dei fondi pubblici italiani?

Tocca un tasto dolente. Di tutto il nostro budget, solo il 6% è coperto da finanziamenti pubblici italiani. è poco ma è pur vero che se assegnati a un Centro già ben strutturato possono certamente fare la differenza. Abbiamo di recente sensibilizzato le autorità politiche ad agire con maggior vigore in questo senso e siamo fiduciosi nel futuro.

Oltre ai finanziamenti, il TIGEM attrae anche tanti giovani ricercatori che si formano e lavorano nei suoi laboratori…

Il TIGEM è attualmente coinvolto in quattro programmi di dottorato, due italiani (con la Federico II e la Seconda Università di Napoli) e due internazionali (con la Open University, UK e la SEMM, Scuola Europea di Medicina Molecolare). Nell’Istituto, poi, sono molti i ricercatori provenienti dal territorio campano ma molti hanno compiuto gli studi all’estero, prima di tornare in Italia. Questo è per me un modello formativo vincente: i ricercatori, per definizione, devono fare esperienza anche oltre i confini del proprio Paese. Per poi ritornare, con un bagaglio culturale ancora più ricco. Cosmopoliti sì, ma non emigrati in fuga.

Qui il sito ufficiale: http://www.tigem.it/

> di Alessio Russo

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