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Baglini, l’emozione della musica

  30 Luglio 2019

Intervista con il prestigioso pianista che ha aperto il Maggio della Musica

Maurizio Baglini è pianista dalla brillante carriera come solista, camerista, didatta e direttore artistico. Fondatore e direttore artistico dell’Amiata Piano Festival, è consulente artistico per la danza e la musica del Teatro “Verdi” di Pordenone e Ambasciatore culturale della Regione Friuli Venezia Giulia. Come solista si è esibito in sedi quali l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro San Carlo di Napoli, la Salle Gaveau di Parigi, il Kennedy Center di Washington ed è ospite di prestigiosi festival, tra cui La Roque d’Anthéron, Yokohama Piano Festival, Australian Chamber Music Festival, “Benedetti Michelangeli” di Bergamo e Brescia.

Lo abbiamo intervistato in occasione dell’apertura del Maggio della Musica a Villa Pignatelli.

Ha proposto a Napoli l’integrale degli Studi di Chopin. Sta poi effettuando una monumentale registrazione integrale delle opere di Schumann, inanellando gioielli di sensibilità e tocco: c’è un motivo particolare per il quale predilige le integrali?

Non è una forma di ambizione, ma un desiderio di costante approfondimento nella ricerca continua di analogie, similitudini, diversità, innovazione. Poi sono due cose diverse: l’integrale degli Studi di Chopin in concerto rappresenta un mito sintetizzabile in 70 minuti scarsi di musica, mentre l’integrale discografica di Schumann occuperà almeno altri sette anni della mia vita! E non tutto lo Schumann sarà poi eseguibile in concerto, temo. Lo dico, soprattutto, perché dovrei trovare un direttore artistico disposto a ingaggiarmi per almeno tredici concerti (ride).

Nel suo recente concerto a Villa Pignatelli ha proposto come bis una Sonata di Domenico Scarlatti, autore visionario, che qui a Napoli chiamiamo familiarmente “Mimmo”, il quale usò ardite dissonanze (quasi dei cluster) talvolta ‘epurate’ dai primi revisori…

Adoro Scarlatti, lo ritengo un genio assoluto. Questa sonata fa parte di un progetto discografico realizzato cinque anni fa, sempre per Decca, casa discografica a cui sono legato in esclusiva dal 2009. Credo che la capacità di sorprendere di Scarlatti sia legata alla diversità continua di ognuna delle sue sonate: incredibile poter mostrare una tale varietà di umori, stati d’animo, linguaggi musicali attraverso una sola, per altro di piccole dimensioni, forma musicale.

Qual è il suo rapporto con la produzione musicale contemporanea? Il gesto dell’interprete è forse ‘sempre’ contemporaneo, perché la rilettura non può che essere prospetticamente declinata, ma qui intendo riferirmi alla produzione musicale successiva al cosiddetto sperimentalismo.

Cerco spasmodicamente di attualizzare anche la musica del passato: non serve riprodurre ciò che hanno già sublimato interpreti di valore storico, bensì serve riportare nel contesto sociologico di oggi la bellezza di opere intramontabili. Suono molta musica nuova: una sorpresa verrà presto svelata per una prestigiosa e significativa produzione che mi vedrà coinvolto nel 2020. Ritengo validissima, oggi più che mai, la regola di Schumann che esorta i musicisti ad “ascoltare la musica di oggi”. Peraltro, sono dedicatario di molte musiche contemporanee e continuo volentieri ad esplorare questi nuovi modi di comunicare emozioni. Credo che la musica possa ancora comunicare emozioni e non distanza dal pubblico come forse è stato per troppo tempo nel corso del XX secolo.

Oltre all’attività pianistica è anche direttore artistico di importanti teatri e rassegne. Qual è l’interesse, in termini di risposta del pubblico, per iniziative rivolte al melting pot? In altri termini, ritiene superato il gap che s’era creato ai tempi di “Fase seconda” di Bortolotto, tra pubblico e offerta, laddove la contemporanea riesca ad aprirsi alle nuove sensibilità meticce?

Scardinare queste barriere è difficile e credo peraltro che non debba essere neppure un’ossessione. “Fase seconda“ è un trattato magistrale scritto da una persona che ho sempre ammirato. Ci sono poi varie forme di mescolanza, non necessariamente da riassumere nel crossover: il jazz stesso, come diceva Gulda, “è musica contemporanea“. Oggi il melting pot può essere valorizzato anche grazie all’interprete che cerca un’individualità esecutiva. Del resto, se si cominciano ad eseguire più volte musiche nuove, vuol dire che la barriera è stata varcata: per troppi anni, la musica contemporanea ha sofferto del tabù-incubo legato alla création, ovvero al momento esatto della prima esecuzione, molto spesso rimasta poi l’unica. Ecco, oggi penso che ciò possa considerarsi superato.

Recentemente ha dichiarato che “non si può più suonare e basta”. Si riferiva al superamento dei ruoli abituali, che ingabbiano l’attività del musicista?

Esattamente. Ritengo che il musicista debba anche produrre risorse per far suonare i colleghi, debba divulgare, debba sostituire i burocrati incompetenti che da troppo tempo, non sempre ma spesso, occupano poltrone importanti in ambito musicale. Si otterrà tutto questo quando la politica si fiderà delle competenze e smetterà di essere ingerente nei confronti dei professionisti.

> di Girolamo De Simone

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