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Di sogni, memorie, mutazioni e segreti

  16 Maggio 2019

Molto spesso apro i libri nuovi partendo dall’ultima pagina, a meno che non si tratti di un romanzo. Con le opere poetiche è un trucco che spesso funziona, perché mi consente di rivolgere lo sguardo a ritroso sull’intento più profondo dell’autore, o, come in questo caso, dell’Autrice. Qui, l’ultima lirica si intitola “Epilogo”, e recita: “Non temere / è tutto passato, / è stato solo un sogno / e i sogni vanno via / insieme al buio della notte”. Al di là del tema borgesiano [il sognatore che vive sognando, o il cui sogno è vita], il titolo dell’ultimo capitolo “Itinerari inesistenti” ci aiuta a comprendere meglio il frammento citato, e la mente si rivolge alle tracce del passato, quelle ingiustamente rimosse dalla memoria facile, collettiva. Quelle memorie che talvolta ho qualificato come ‘memorie inconciliate’, riferendomi ad alcuni compagni di strada, vivi o scomparsi, ingiustamente rimossi dalla storia delle vicende a noi ancor prossime: come noto, il rizoma affievolisce la sua importanza dilatandosi a ritroso nel Tempo. Più si va indietro, più la lettura lineare – forse giustamente – prevale. L’interpretazione dei fatti ne esce stravolta, perché anche l’interpretazione, allungandosi nel tempo, diviene azione che determina un ricordo, o lo smarrisce nelle pieghe. La piega, questa traccia foucaltiana, l’ho declinata nella contemporaneità come se si trattasse di ferita, squarcio. Perciò l’autore dimenticato diviene memoria inconciliata: quello che ha fatto è ricordato non nelle pieghe, ma nelle piaghe di chi è sopravvissuto, ed è magari amico, compagno di percorso.

Uno storico – appunto – del rizoma.

Leggendo nei versi di Gelsomina Astarita il tema del passato, il quale subisce la tentazione di trasformarsi in un sogno che va via, ho pensato ad Antonio Neiwiller. Pochi giorni fa, alla proiezione di un film su Fabio Donato, lo straordinario fotografo che ‘inventò’ l’immagine di Luciano Cilio, appariva un libretto di Neiwiller, sfogliato da Fabio velocemente, ma non tanto da celarne il Leitmotiv. Dopo la proiezione, ho impiegato alcune ore per reperire il raro testo, che si intitola Non ho tempo e serve tempo, edito nel 1988 dalla piccola editrice “L’Alfabeto urbano”. Il percorso di Neiwiller si incrociò con quello di Cilio, se non altro per l’uso delle sue composizioni nel lavoro teatrale “Titanic the end”, che fu anche laboratorio condotto a Napoli, tra il 1982 e il 1983, al Teatro Nuovo.

La morte di Cilio, nel 1983, dovette colpire profondamente Neiwiller, al punto da spingerlo a usarne le splendide composizioni, talvolta dolorose, talaltra di una malinconica, mediterranea, solarità. Neiwiller, è forse il caso di rammentarlo, fu l’ideatore del Teatro clandestino, del Teatro del sottosuolo, autore della “Trilogia della vita inquieta”. A lui, e agli altri ‘inconciliati’ anch’io dedicai un’Azione musicale, intitolata Il resto della Memoria, per pianoforte e voce recitante, che non a caso fu rappresentata la mattina del 30 Maggio 1999, a Napoli, nel Salone delle Feste dello storico Palazzo Marigliano, sede della Soprintendenza archivistica della Campania, sul cui portale d’ingresso compare la scritta, a caratteri cubitali: “MEMINI”. L’azione fu patrocinata, tra gli altri, dall’Istituto Studi Filosofici di Napoli. Mi piace citarne l’incipit: «A Palazzo Marigliano visse e operò anche Antonio Neiwiller, diretto con la sua barchetta, dal nome “Teatro dei Mutamenti”, verso la parte dell’isola che aveva intravisto. Ché quest’isola compare e scompare continuamente alla vista e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie. In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo» (Fabrizia Ramondino, Promenade napoletana).

Neiwiller declina il tempo in decine di pensieri, distribuiti in poche righe per pagina. Uno, in particolare, mi fa pensare alla raccolta di Gelsomina Astarita:

 

Il tempo passato

 il tempo in cui pensi all’altro tempo

che è in te

Antonio Neiwiller

 

Effettivamente, con Neiwiller, pare tendersi un tratto d’unione che, per dirla con i versi di Fuochi d’argilla si consegna a “Vicinanze spirituali”, che “toccano / leggere come soffi”.

Un altro tema, il tempo della musica, fa da sfondo ad alcune liriche di Gelsomina Astarita: “Parole antiche / di un canto lento. / Languida nenia / di arcaici suoni. / Canto lento / frammento di vita. / Infinita melodia / che svanisce / nel buio di notti segrete”. Quanta sintonia sento qui, e la dichiaro: con le ricerche d’antiche fonti, da quelle arcaiche del canto religioso, il quale parte dalla Siria duemila anni fa, e giunge fino alle coste della nostra Italia; e ancora sintonia, con i suoni di antiche campane tibetane, o di tintinnabuli estratti dagli scavi d’epoca romana alle pendici del Somma-Vesuvio! Il tempo della musica, quale che sia la sua origine, scorre lento o rapido, si fa melodia, infinita perché svanisce solo nella nostra percezione. Noi sappiamo che quella melodia non potrà terminare, eppure si allontana, passa, e man mano s’affievolisce; lungo un tempo ch’è, in realtà, uno spazio: quello della lontananza.

È – ancora una volta – memoria: quella che resta al silenzio.

E appunto è tale il rinvio biunivoco che colpisce, e che in ogni buon libro poetico ricorre: l’altalena tra Parola e Silenzio: lo ripropongo accostando diverse citazioni dal libro di Gelsomina Astarita: “Cantilena di parole inutili / che danzano mollemente / e fluttuano nell’aria afosa / di un giorno sprecato”. Le parole disegnano itinerari distanti dai fatti, rischiano – se isolate – la vacuità d’un discorso solo apparentemente corretto, esatto per convenzione: “Sul palcoscenico della vita / recito un triste monologo. / Eppure / avevo preparato un bel discorso, / ma l’ho dimenticato”.

Da qui al silenzio, il passo è breve: “Sola, / tra la moltitudine / dei miei pensieri, / ascolto il silenzio”. E la traccia del silenzio, anche iniziatico, della concentrazione interiore che il silenzio propizia, è finalmente servito, s’intreccia col vissuto quotidiano di chi fa della musica la sua arte e la sua professione. Chi fosse incapace di percepire/per/suonare e ‘giocare’ il silenzio (in inglese, ‘to play’ indica entrambe le cose), non potrebbe occuparsi di musica, o, facendolo, resterebbe solo alla superficie del suono. È la lezione di John Cage, ma anche quella di Giuseppe Chiari, altro musicista forse non ancora conciliato…

Per questo – e qui si chiude questa piccola riflessione – la necessità dell’introspezione è quasi accarezzata interiormente: “Non cerco nulla / Nei luoghi della mente / percorro vie segrete”.

Così, il nulla diventa tesoro; grato, sacro.

di Girolamo De Simone

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