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L’arcobaleno della gravità di Emanuele Cerullo

  28 Aprile 2016

Intervista allo scrittore delle Vele di Scampia

Scampia. Vele, faida, camorra, degrado, droga. La cronaca, purtroppo, conferma sovente l’immagine degradata di questo quartiere della periferia nord di Napoli. A Scampia vivono tuttavia migliaia di famiglie oneste che, intrappolate, hanno trascorso, trascorrono e trascorreranno qui tutta loro vita. Tra loro ci sono meccanici, medici, giornalisti e poeti. Anche poeti. Emanuele Cerullo, una delle voci più interessanti della ribalta letteraria partenopea, è nato da queste parti. E proprio a partite dalle sue origini, Cerullo sviluppa le sue poesie, nelle quali però Scampia più che un luogo, è una dimensione rintracciabile in tutte le periferie del mondo, anche quelle del centro. Ma, come si usa dire in questi casi, è meglio lasciare la parola al diretto interessato.

Come nasce la passione per la scrittura?

Nel modo più ovvio, leggendo. Leggere, per me, è sempre stato come mangiare, anzi, ancora oggi per finire un libro mi dimentico di mangiare!

Qual è stata la sua prima lettura?

Credo “La fontana malata”. Alle elementari, la mia maestra leggeva, spesso, a voce alta filastrocche e poesie, sai, quelle che di solito si imparano a memoria. Tra le tante, mi colpì quella di Palazzeschi, sopratutto per la sua incredibile musicalità, capace addirittura di riprodurre il suono dell’acqua della fontana.

E la letteratura vera e propria quando l’ha scoperta?

Alle scuole medie. Ho frequento la “Virgilio 4”, davanti alle famose Vele, dove tra l’altro, allora, abitavo. In classe non si studiava molto perché un gruppo di ragazzi rendeva impossibili le lezioni. Quando tornavo a casa, però, mio fratello, che lavorava in una libreria, mi regalava libri di ogni tipo. E così, aprendo per curiosità questi grossi volumi, mi appassionai pian piano alla letteratura.

Le prime letture, per quanto casuali, furono, devo ammetterlo, pesanti. A quell’età si legge Salgari, Stevenson, Collodi. Io ho iniziato con “La vita nuova” di Dante.

Naturalmente capivo ben poco, ma anche lì, il suono musicale di quelle parole mi affascinava. Ma la vera svolta arrivò nel 2004, quando scoppiò la faida di Camorra. I miei genitori, spaventati, decisero di farmi uscire il meno possibile e i libri diventarono una finestra dalla quale evadere e attraverso la quale vivere infinite vite.

Quando, invece, ha iniziato a scrivere?

La prima volta che ho scritto una poesia è stata per una mia compagna di classe della quale ero innamorato, lei, sia chiaro, non ha mai saputo nulla!

Le poesie che poi sono state raccolte nel libro come sono nate?

Intorno a me succedevano cose terribili, che mi impressionavano.

Quasi senza accorgermene i miei pensieri finivano sulla carta, prima come frasi e poi, poco a poco, come poesie. A tredici anni, nel 2006, scrissi moltissimo e il tema dominante fu proprio Scampia, ma più che poesia ‘su’ Scampia, erano poesia ‘da’ Scampia.

Per esempio, in “Oltre le Vele” scrivo:

Voglio volare lontano
dall’indifferenza di un mondo
che non sa più amare
ed è sempre più ostinato ad avere
avere e avere ancora.
Voglio volare più su delle vele
e gridare a tutti
che basta spiccare un volo
per conquistare la libertà.

Sono evidenti i miei amori letterari dell’epoca, da “La piccozza” di Pascoli, a “L’albatro” di Baudelaire, passando al Rimbaud di “Sensazione” e del bellissimo «me ne andrò lontano, molto lontano come uno zingaro, nella Natura, lieto come con una donna».

La sua carriera com’è iniziata?

Proprio in quel periodo, sebbene scrivessi tantissime poesie, non avevo il coraggio di leggerle a nessuno. Un giorno, durante un compito in classe, non riuscendo a farlo in prosa, lo scrissi in versi. Ero preoccupato, mi aspettavo un brutto voto per non aver svolto il tema. La professoressa, invece, apprezzò la mia idea. Mi ricordo la sua faccia mentre leggeva le mie strofe a tutta la classe. Quella poesia era “Il coraggio di essere liberi”, ed è forse il mio componimento più famoso, piacque anche Baudo quando glielo lessi a “Domenica In”. Comunque, alla fine dell’anno scolastico, la scuola decise di pubblicare a sue spese le mie poesie, e da lì è iniziata la mia avventura.

Parliamo del suo libro…

“Il ventre di Scampia” è diviso in due sezioni, nella prima ci sono le poesie scritte tra il 2012 e il 2015, nella seconda quelle composte durante gli anni di scuola, tra il 2006 e il 2007. Ho scelto di proposito di pubblicarle con un ordine cronologico a ritroso. Le poesie della seconda sezione sono per me molto importanti. Oggi, non c’è dubbio, le scriverei diversamente, però mi fanno capire il modo in cui sono cresciuto, maturato.

Una sorta di confronto tra il sè adulto e quello bambino.

Se nelle poesie scritte a tredici anni, come “Il coraggio di essere liberi”, c’è ancora l’innocenza del bambino, in quelle più recenti, come in “Oltre le vele”, c’è la rabbia, la sofferenza della periferia. La speranza cede il passo al pessimismo o, meglio, a una nuova consapevolezza in cui il tutto è causa di tutto. Perché la speranza, se usata male, diventa un alibi per la staticità. Non si può sperare che il cambiamento ci venga offerto dall’alto: dobbiamo essere noi il cambiamento. Nessuna verità salvifica ci può aiutare, solo la nostra personale e mutevole verità è ciò che dà senso a un’esistenza che, altrimenti, ne è priva. Preferisco l’azione a una speranza che non si può realizzare.

Quale consiglio darebbe a un adolescente, magari con la passione per l’arte?

Non perdere tempo, inventa! Il tempo che perdi, è il tempo che non hai voluto inventare.

di Roberto Colonna

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