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CINEMA A NAPOLI: L’ARTE DI MOSTRARSI

  16 Gennaio 2019

Titoli, protagonisti, tendenze: la grande avventura del cinema a Napoli dai pionieri alle ultime leve

È Napoli che nel 1896, il cinematografo è accolto in modo entusiasta da un pubblico attento e caloroso. La presentazione del cinematografo Lumiere è organizzata in aprile, appena un mese dopo la grande premiere nazionale a Roma. Il successo straordinario intuisce sulla decisione dei Lumiere di lavorare in uno dei più prestigiosi caffè concerto napoletani, il Salone Margherita che fino a maggio funzionerà esclusivamente come cinema. I Lumiere inviarono i loro operatori che realizzarono in città un preziosissimo reperto di immagini di incredibile valore documentaristico e di grande raffinatezza formale.

Agli inizi del Novecento la febbre napoletana per la settima arte è altissima, favorendo la nascita delle prime storiche produzioni cinematografiche come la Dora film o la Partenope film di Roberto Troncone, aziende inizialmente a conduzione familiare che introducono in città il culto e la consuetudine con i mezzi e le sensibilità richieste dal cinematografo e favoriscono le carriere di alcuni pionieri tra cui la più nota regista donna del suo tempo: Elvira Notari. Il rapporto tra città verticale e cinema non si è mai interrotto, nutrito nel tempo da incontri artistici epocali come quello tra De Sica e l’universo napoletano di Marotta e di De Filippo, o più recentemente quello della Wertmuller con le femminilità partenopee, o le indagini del cinema politico di Francesco Rosi. Napoli, insomma, ha sempre attratto lo sguardo della macchina da presa: la natura porosa della città di Benjamin avrà favorito l’accoglienza dello sguardo degli artisti nelle pieghe del ventre di Napoli, attirati dalla proverbiale teatralità del suo popolo, come dalla colorata vivacità dei suoi vicoli. Nel 1954 il festival di Cannes consacra il “Carosello Napoletano” di Giannini, meditazione in musica sulla tormentata storia della città attraverso i racconti di un cantastorie che “rivive” la città attraverso “quadri” ispirati all’omonima pièce teatrale del regista. Considerato dai più raffinati il miglior film girato a Napoli, nonostante la città sia completamente e genialmente ricostruita in studio, il film è opera seminale, in modo consapevole o meno, per tutto il cinema napoletano a seguire.

Gli anni ‘50 vedono poi il definitivo avvento del cinema d’autore, con l’episodio di “Paisà” di Rossellini, girato a Napoli, i tanti capolavori napoletani di Vittorio de Sica, da “Matrimonio all’italiana” a “L’oro di Napoli“ oltre che a due pietre miliari, come “Le quattro giornate di Napoli“ di Nanni Loy e “Le mani sulla città“ di Francesco Rosi che, a partire dal sacco urbanistico della città, inventa il cinema di testimonianza eticopolitica che tanti echi avrà sul cinema nazionale ed internazionale. I premi ai festival internazionali segnano la definitiva consacrazione della città del cinema, mentre lm tratti da sceneggiate, come “Catene”, trionfano ai botteghini.
Negli anni 60 Napoli è la mecca di prestigiose produzioni hollywoodiane attratte dalla Costiera e dalle Isole del Golfo, o dei “musicarelli” che portano i più celebri divi della canzone italiana ad affollare le spiagge tra Napoli e Caserta. Gli anni ‘70 segnano l’avvento del cinema di sceneggiata con nuovi eroi nazionalpopolari che rubano alla sanguigna espressività popolare voce e volti, come Merola o Abate, rimasti icone della città tra melodramma e action movie, perfetto preludio al regno della stella di Nino D’Angelo, prestato direttamente dalle viscere della città alla ribalta nazionale, in lm ingenui, ma di certo valore antropologico.
Negli anni ‘80 debutta alla regia il genio di Massimo Troisi, che immediatamente si impone nel panorama nazionale come nuova luminosissima stella di un cinema meticcio tra commedia e riflessione intima. Negli stessi anni, la città ferita ma allo stesso tempo rimessa in moto dal terremoto dell’Irpinia, vive un momento di particolare creatività in tutti i settori delle arti a dispetto di un clima apparente di attesa, crisi e di sospensione industriale. La scossa pare dare nuovo vigore alla proverbiale creatività vesuviana che, come una corrente vulcanica, si avvale di performance più libere e partecipate. Sono gli anni del “Masaniello” di Porta e Pugliese, della “Gatta Cenerentola” di De Simone, e quelli in cui la lungimiranza di Lucio Amelio porta in città il genio e la visione artistica di Wharol e di Beuys, ma anche di Keith Haring e di Basquiat. Città cruciale, unica a contendere alla “Grande Mela” il primato della creatività e della centralità culturale, come disse lo stesso Wharol, Napoli vede nascere l’astro del cinema di Salvatore Piscicelli con le sue indagini antropologico-poetiche nel tessuto urbano della città, mentre nelle cantine dei teatri off napoletani di queste visioni si nutrono i talenti di Silvio Orlando, Tonino Taiuti, Renato Carpentieri, Vittorio Lucariello, Annibale Ruccello, Enzo Moscato e Manlio Santanelli, e poi il gruppo avanguardistico che diverrà Teatri Uniti, con Antonio Neiwiller, Toni Servillo e Mario Martone a definire nuovi codici artistici di comunicazione non verbale: una stagione di ricerca teatrale in cui i confini delle arti divengono liquidi con eventi storici alla Galleria Amelio e al City Hall che vedono addirittura calare in città l’astro di Chet Baker per un unico memorabile concerto. Una stagione di ricerca artistica che molto influisce su un evento epico per il cinema nazionale, che in questo bacino di cultura straordinario trova il suo humus naturale ed esplosivo: la nascita del “cinema vesuviano”, che reinventa i canoni della messa in scena cinematografica scegliendo di utilizzare set reali e non ricostruiti.

In pratica uno schiaffo in faccia al dominio degli studi di Cinecittà dove no ad allora era relegato l’ambito cinematografico nazionale.

Napoli diviene dunque set a cielo aperto, anticipando scelte produttive ed artistiche che per no celebri soap, anni dopo, condivideranno. Determinante anche per questa nuova generazione di cineasti napoletani il ritorno all’utilizzo pasoliniano del non attore come elemento narrativo e poetico, genialmente coniugato con presenze attoriali forti e carismatiche come ad esempio nel caso del Carlo Cecchi/Caccioppoli in “Morte di un matematico napoletano” o dei primi film di Antonio Capuano e di Pappi Corsicato.

Pian piano accade qualcosa di veramente rivoluzionario per l’epoca. Il formarsi, cioè, nelle pieghe della ricerca, di una nuova classe di tecnici del cinema che è poi divenuta centrale e determinante per il panorama cinematografico nazionale e la crescita di un indotto con ditte di noleggio, scenografia, costumi, catering e fitto materiali, prima inesistenti nel capoluogo meridionale. Siamo, insomma, ai primi vagiti di quella che, molti anni dopo, verrà codificata come Film Commission. Già allora Napoli, più economica e vitale della capitale, è invasa dai set di Rosi, Wertmuller, fino a Lucas e ad altre prestigiose produzioni internazionali. Il talento dei nuovi cineasti napoletani e dei loro collaboratori tecnico-artistici invade i festival europei riscuotendo i primi consensi, con lm spesso, per no in Italia, sottotitolati, per l’uso consapevole e liberissimo della lingua napoletana.

Siamo, così, alla seconda leva del giovane cinema napoletano con l’affermarsi di registi come Antonietta De Lillo, Giorgio Magliulo, Beppe Gaudino, Nina Di Majo, Laura Angiulli, Vincenzo Marra, Vin- cenzo Terracciano e tanti altri. Il tessuto narrativo e linguistico si ramifica e diversifica sempre più, di pari passo con l’autorevolezza ormai acclarata delle visioni del cinema napoletano, che diviene catalizzatore di presenze nazionali sul territorio. Alcune produzioni si insediano in città e il percorso iniziato negli anni ‘80 si lega indissolubilmente alle maschere fattoriali di Toni Servillo, Anna Bonaiuto, etc… e trova nuova linfa nelle opere di Paolo Sorrentino e Carlo Luglio, come nel primo tentativo di ricostruzione di set d’epoca realizzati interamente nel capoluogo con il mio progetto “La Volpe a Tre Zampe”, primo, piccolo kolossal realizzato a Napoli, ancora vitale ed attuale a 15 anni dalla realizzazione.

È di questi anni la nuova felicissima stagione del cine- ma napoletano, legata al successo planetario di “Gomorra” ed al potere attrattivo, nel bene e nel male, della serie. Vale ricordare che il prodotto televisivo vede non a caso protagonista una delle più inossidabili presenze del cinema napoletano anni ‘80: la Cristina Donadio protagonista dei lm di Corsicato come di Schlondorff, artista inarrivabile della scena teatrale come cinematografica. Al di là di mega produzioni e successi planetari è ancora nel solco della ricerca che il cinema napoletano coglie nuovi successi, con le chicche di Carlo Damasco o il lm no budget di Guido Lombardi “Labas”, che vince il Leone del futuro al festival di Venezia 2011 e impone il suo giovane regista e una nuova generazione di tecnici del cinema, oltre che il talento e la sagacia di Gaetano di Vaio coi suoi Figli del Bronx. Nati su impulso artistico di quel talentaccio poliforme di Peppe Lanzetta, la produzione napoletana privilegia un cinema dei margini, spesso legato a temi etici forti, come nel caso dei lm di Diego Olivares e Toni D’Angelo, Napoli impone definitivamente tra i protagonisti del cinema internazionale talenti come quelli di Nicola Giuliano o Giogiò Franchini. Intanto Napoli/ Hollywood è presa d’assalto dai maestri del cinema italiano e dalle più prestigiose produzioni internazionali, cui presta un’accoglienza umana formidabile, un tessuto urbano incomparabile e una, ormai perfetta, organizzazione delle maestranze locali, tra le più qualificate e disponibili d’Italia.

Oggi il cinema napoletano è un’industria potente e ricca, che sforna continuamente nuovi talenti origina- li come gli attori Antonia Truppo, Antonello Cossia, Rosaria De Cicco, Gianpaolo Morelli, Nunzia Schiano, Serena Rossi, Massimiliano e Gianfranco Gallo, Agostino Chiummariello, Fabio Massa e Francesco di Leva e il suo gruppo Nest, o il regista Eduardo De Angelis. Di sicuro rilievo è, poi, la strutturata presenza sul territorio di professionalità di nuovi tecnici dell’audiovisivo, dal gruppo di Raffaella Faggiano e Antonio Cossia, a Viola Prestieri e Gennaro Marchitelli, ai talenti di Francesca Amitrano, felice eccezione al femminile nell’ambito della direzione della fotografia nazionale, o di Giorgio Molfini (unica vera alternativa al monopolio romano per quel che riguarda il montaggio del suono), ai montatori Davide Franco e Giacomo Fabbrocino o alla maestria di Chris Barone al trucco e di Daniela Salernitano, di recente alla ribalta nazionale per i costumi di “Ammore e malavita” dei Manetti Bros, anche loro ormai parte di uno stabile e felice orizzonte cinematografico napoletano.

Queste presenze professionali competenti e appassionate garantiscono ormai continuità, originalità e sapienza all’intero comparto nazionale, mentre si attendono le prove della nuova generazione di cineasti che, nelle scuole di cinema campano, cerca la propria voce e la propria collocazione nel tessuto professionale nazionale. Quanta strada dal cinema dei pionieri! La città che ha fatto di una naturale propensione alla spettacolarizzazione dei sentimenti una raffinata arte di mostrarsi e di alludere, di rimandare a un segreto sempre inafferrabile sperimenta oggi nuovi confini tra realtà e finzione, esplorando le nuove tecnologie, tra il tufo e le vertiginose aperture sul mare della città verticale.

> di Sandro Dionisio

 

 

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