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Cristina Donadio, il canto della Sirena

  09 Novembre 2018

Parla la protagonista del film di Sandro Dionisio, girato sulle rovine di Città della Scienza

Cristina Donadio e Napoli, la trama e l’ordito. Scianel o Sirena, Cristina scava nel profondo, lotta con i suoi demoni, lavora per sottrazione con le sue interpretazioni. Ne rende l’anima.

“In scena porto il mio vissuto – dice la Donadio -, fatto di tante stratificazioni che vanno a consolidare la mia struttura. E la Sirena Partenope è un archetipo che appartiene a noi: Napoli è l’emblema nel bene e nel male, che con il suo canto ti sorprende, ti affascina e ti inganna”.

Quali sono stati i primi passi nel mondo dello spettacolo?

Sono passi fatti per caso o perché era scritto così: non c’è stata, all’inizio, una presa di coscienza. In quegli anni avevo la possibilità di fare scuola sulle tavole di palcoscenico, assorbirne odori, rumori, sentirne i graffi sulla pelle. Per caso Nino Taranto venne a vedere uno spettacolo che facevo a Ischia con Geppy Gleijeses. Mi chiese se volevo entrare nella sua compagnia: ero diciottenne, ne parlai con mio padre e lui mi rispose che mi avrebbe considerato un’attrice solo il giorno in cui avrei vinto l’Oscar. Compresi poi il senso delle sue parole: vola sempre alto, il tuo obiettivo deve essere irraggiungibile per fare sempre meglio. Ecco, l’imprinting, il segno di come sono oggi lo devo a lui.

Che cosa ha provato entrando in questo mondo?

Per i primi dieci anni, ho affrontato tutto con una buona dose di spavalderia. E con la voglia di misurarmi con scelte sempre più difficili: ero bella come il sole, ma soprattutto in grado di pensare. “Nel Regno di Napoli” di Werner Schroeter è stato il primo film, poi Squitieri, la Cavani, Bevilacqua, Corsicato… Ogni incontro con un regista e con grandi produzioni mi apriva un nuovo mondo dove andavo a curiosare. Questo, invece, è un mestiere dove raccogli quello che semini. E al primo posto c’è la tua vita: quello che traspare, nelle interpretazioni, è il tuo vissuto reale. Noi siamo racconto, narrazione, con la parola, lo sguardo ed i gesti.

Ha un rimpianto, in questi suoi dieci primi anni?

Si, l’incontro con Fellini e l’opportunità de “La città delle donne”. Ero come una bambina nel paese delle meraviglie…ecco, il rimpianto è di non aver colto un’occasione di crescita, scoperta e meraviglia. Bastava solo guardare Fellini per capire il cinema.

Qual è l’evento che l’ha cambiata?

La tragica morte di Stefano Tosi, mio marito, e di Annibale Ruccello. Poi l’incontro con Enzo Moscato nell’86. Da quel momento in poi è cambiato il mio tessuto: ho iniziato a sentire la trama sulla quale lavorare, nella mia vita di attrice e di donna, ordito e trama.

Trama e ordito che si sovrappongono a Napoli…

Napoli, con tutti i suoi chiaroscuri e le sue contraddizioni, quando ci sei nata e non la lasci, ti entra dentro. Ma non mi ritengo un’attrice “napoletana”: quando recitavo al Teatro delle Arti di Roma con Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, non sembravo un’attrice napoletana, così come quando c’era un progetto a Napoli, al quale sarei stata felice di partecipare, mi dicevano che ero “poco napoletana”. E dire che non ho mai studiato dizione… Oggi non c’è separazione netta tra la tua origine, come parli e che cosa devi rappresentare. Grazie al cielo si è capito che l’attore deve essere qualcun altro, deve lavorare e mangiarsi il personaggio, finché non sente il suo sangue e sudore, come avvenuto in Gomorra con Scianel.

Napoli ha il canto che t’incanta e ti disturba, non ne puoi fare a meno…

Il Dizionario Zanichelli della Lingua Italiana mi ha chiesto la definizione della parola “verace”. Ci ho ragionato un po’, non mi piaceva di primo acchito, ma poi ho scoperto che ha un’anima divisa in due: un significato autentico, e quando a Napoli trovi l’autenticità è qualcosa di magnifico. Ma “verace” è anche una visione da cartolina stereotipata, che mi disturba e mi allontana. Ed in questa ambivalenza mi sono ritrovata nel mio rapporto verso la città: sono nata a Posillipo, un paese dove ci si ritrova tutti. Ogni giorno io mi addormento e mi sveglio con il rumore del mare, vedo i colori delle stagioni che passano. Tutto questo mi commuove. Ma, al tempo stesso, ci sono mille cose che non vanno. Ecco, oscilliamo tra la grande bellezza e il peggior degrado. Tutto questo è la Napolitudine che ti porti dentro, un perenne oscillare tra l’alto e il basso.

Un perenne senso di sospensione? Come uscirne?

Abbiamo dietro le spalle un passato pesante e difficile, ma davanti c’è un futuro dove tutto il bello deve ancora venire. Napoli ti chiede uno sguardo adolescente, puro, verso il futuro. Il limite è che tendiamo ad adattarci e rimanere sospesi, una sospensione che riguarda le componenti politiche, culturali, artistiche e sociali della città. È un nostro karma, un destino. Quando riusciremo tutti a fare un passo in avanti per toccare terra sarà un gran bel giorno.

Oggi dove canta la Sirena?

Oggi sono tanti i canti della Sirena: il Rione Sanità, ad esempio, dove il passato è più feroce, ma quello che sta creando Don Antonio, con il teatro, le Catacombe, l’Orchestra, le palestre e le tante iniziative di animazione sociale è uno sguardo verso la “grande bellezza”. Lavorando nei luoghi dove l’oscurità è più profonda, la luce diventa risplendente. Dove hai paura di andare trovi le aperture più sorprendenti.

Un contrasto forte che traspare nella sua Scianel…

Quando la produzione di Gomorra-La Serie mi ha presentato sulla carta Scianel, mi ha chiesto di dargli un’anima. Sono rimasta a guardarla dall’esterno e considerarla archetipamente come un’eroina da tragedia greca o di un dramma shakespeariano, Clitennestra o Lady Macbeth. Poi ho lavorato per sottrazione, scavando nel mio profondo: Scianel narra l’orrore ma anche l’essenza della bellezza che nasce dai contrasti.

Da Scianel alla Sirena…

Sandro Dionisio è un eroe perché ogni suo progetto nasce da un’esigenza profonda di raccontare. In questo caso l’emozione è stata quella di lavorare con i piedi su quella ferita, dentro i ruderi dell’incendio di Città della Scienza, sentendone addosso il disagio e il dolore. Avvicino questo lavoro a “La 25ma ora” di Spike Lee, il primo a mostrare Ground Zero dopo gli attentati del 2001. Mentre giravamo sentivo viva quella ferita, uno scempio dove tra le macerie si vede mare e cielo, e sotto i piedi percepisci un’energia non spiegabile a voce. Dentro c’era tutto: stupore, dolore, rabbia, meraviglia. Il film di Dionisio, inusuale e diverso, deve durare nel tempo, perché non racconta solo una storia, ma è molto di più. È uno spaccato antropologico di questa sospensione.

> di Francesco Bellofatto

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