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A lezione con Massimo Dapporto, tra consigli ai giovani e il ricordo con Eduardo

  10 Gennaio 2017

L’attore milanese promuove la comicità innata dei napoletani ed esorta gli aspiranti attori della scuola CinemaFiction a non montarsi mai la testa

Una carriera costellata di successi in ogni campo dello spettacolo, dal teatro al cinema, passando per la fiction in televisione e per il doppiaggio. Massimo Dapporto è tra gli attori italiani più poliedrici e amati dal pubblico.

Figlio d’arte dell’indimenticabile Carlo, l’attore milanese è stato scelto per vestire – e questa volta non per interpretare un ruolo – i panni dell’insegnante a Napoli in un workshop sulle tecniche attoriali, organizzato dalla scuola e società di produzione Cinemafiction in collaborazione con il nuovo Imaie.

Con uno sguardo dalla forte carica espressiva e l’entusiasmo e l’umiltà di chi quasi si sente a disagio nel ruolo di insegnante, Massimo Dapporto ha raccontato il suo rapporto con Napoli.

«Napoli è un teatro a cielo aperto e la forza degli attori a cui questa città ha dato i natali sta nel dialetto – commenta l’attore –. È come una canzone, come parlare in metrica e non c’è bisogno di troppi giri di parole per esprimere un concetto».

Dapporto promuove la comicità innata degli attori napoletani e la loro naturale voglia di emergere, spesso supportata da originali espedienti per attirare l’attenzione.

«Non posso dimenticare quella volta in cui all’uscita del teatro si avvicinò un ragazzo con un bastone, mostrando chiare difficoltà visive. Mi riempì di complimenti e si fece aiutare per attraversare la strada. Poi, dopo uno scambio di battute, si congedò con un bigliettino e mi chiese di leggerlo solo una volta che ci saremmo salutati. Ebbene, su quel foglio di carta c’erano i suoi dati, con l’auspicio di essere contattato qualora mi fosse piaciuta la sua interpretazione di non vedente. È questa la voglia di emergere, tipica dei napoletani».

L’artista ha rivelato quanto sia stato gratificante e intenso lavorare con i giovani aspiranti attori della scuola, tanto da chiedersi chi fosse davvero il “seminarista”, se lui o loro, nell’auspicio di aver seminato le giuste “speranze”.

Sempre all’altezza dei ruoli che gli sono stati affidati, che si trattasse di personaggi complessi sulle tavole teatrali o di protagonisti di fiction TV che si guadagnavano immediatamente l’affetto del pubblico, Dapporto ha sottolineato quanto sia fondamentale per un attore  non montarsi la testa e  capire che, in questo mestiere più che in ogni altro, esiste una parabola ascendente e una discendente. Così come bisogna accettare il fatto che ogni età si presta a un determinato tipo di ruoli.

Una doverosa distinzione va fatta anche tra la recitazione teatrale e quella cinematografica. «Il teatro presuppone la capacità, non sempre scontata, di stare davanti a un pubblico che in quel preciso istante ti dà la misura dell’apprezzamento e quindi del successo – sottolinea Dapporto –. Davanti alla macchina da presa, invece, l’empatia con il pubblico è sacrificata e non saprai mai se hai fatto veramente bene fino a quando non verrai impresso sullo schermo».

Consacrato da personaggi di fiction indimenticabili come “Amico mio”, “Giovanni Falcone” o “Distretto di Polizia” –  serie in cui, tra l’altro, è stato diretto dal figlio regista Davide – , Dapporto ammette che l’incubo della sala vuota in teatro è un rischio ricorrente di chi fa esclusivamente teatro e solo anni di lavoro permettono di raggiungere il successo.«Il cinema e la televisione regalano una popolarità che consente di fare teatro ad alti livelli con la garanzia di una sala sempre piena».

Non manca qualche osservazione sulle caratteristiche del pubblico napoletano, che Dapporto definisce «difficile e troppo legato agli autori della propria tradizione».

Ed è proprio di una delle leggende del teatro napoletano che Dapporto conserva un ricordo speciale. «Ricordo che alla fine di una rappresentazione de L’Avaro incontrai Eduardo de Filippo mentre andava nei camerini per salutare Mario Scaccia, il capocomico. Mi fece i complimenti e mi disse, insistendo di fronte alla mia ritrosia: “Tu sei bravo, e lo sai!”. Una settimana dopo, al termine di un suo spettacolo, fui io a capitare per sbaglio nel suo camerino, accompagnato dal direttore del teatro che mi aveva scambiato per suo figlio. Lui mi guardò e mi disse: “Tu non sei mio figlio…e lo sai!”».

 

> di Giulia Savignano

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